Non ho mai avuto problemi col mio corpo, ma non perché sia dotata di una particolare forza d’animo o abbia fatto negli anni chissà quale lavoro di autostima. Non ho mai avuto problemi col mio corpo perché ho sempre avuto un aspetto piuttosto conforme ai canoni estetici del mio tempo.

Sono cresciuta tra gli anni Novanta e i 2000, l’epoca che ha inventato il concetto di “thigh gap” per descrivere il vuoto tra due cosce magre che non si toccano fra di loro, e in cui la magrezza, pensavamo, era sempre l’ambizione massima per una ragazza. Le mie cosce per molto tempo non si sono nemmeno sfiorate per una loro spontanea iniziativa, appartenendo io all’odiosa categoria delle magre involontarie.

Benedetta da un metabolismo feroce, che mi ha permesso di nutrirmi malissimo per anni senza dovermi preoccupare di non entrare più in pantaloni che mi sarei potuta scambiare con un bambino di otto anni, ho navigato l’adolescenza – di suo già abbastanza piena di turbe di altra natura – senza curarmi più di tanto della taglia dei miei vestiti, trattandosi appunto di una taglia molto piccola. Com’è ovvio mi sarebbe comunque piaciuto essere fatta in un altro modo – più alta, più tette, meno scoliosi – ma sentivo che mi era stata risparmiata un’angheria non indifferente e che, almeno da quel punto di vista, potevo starmene un po’ tranquilla.

Tuttavia so bene che la percezione del proprio corpo ha poco a che fare con le risposte di una bilancia o con i centimetri di un girovita, ho amiche che in quegli stessi anni ne fecero una malattia pur partendo da corpi esili.

Nel mio liceo le ragazze che soffrivano di disturbi alimentari erano talmente numerose che mia madre fu convocata dalla mia insegnante di educazione fisica che dava per scontato che avessi anch’io smesso di mangiare e voleva discutere del mio stato di salute con lei. Il soprannome di mia mamma da ragazzina era “cerino”: sapeva bene che si trattava di un fatto genetico e che non c’era alcun bisogno di allarmarsi.

Un’ammissione

Oggi nessuno potrebbe più pensare che io non mangi e ammetto, non senza vergogna, che questo mi dispiace. Sono ancora una persona magra, credo, ma non più magrissima (sono più o meno magra come la Bridget Jones del primo film, che nel 2001 era considerata grassa). Vorrei dire che questo cambiamento non mi tange, e invece a 32 anni mi ritrovo a fare i conti con un preciso tipo di frustrazione che mi illudevo non mi appartenesse. Non era forza d’animo, non era autostima, ero solo sottopeso. Sono fuori tempo massimo, questa è l’età in cui dovrei essermi ampiamente affrancata da questo tipo di insicurezze e mi piacerebbe dedicare zero minuti delle mie giornate alla nozione di culotte de cheval, eppure eccoci qui, a sedare una crisi di nervi insorta insieme alla sindrome premestruale perché lo specchio mi restituisce l’immagine di due cosce che combaciano perfettamente senza fatica alcuna.

Lo trovo demenziale e mi imbarazza: per lavoro leggo libri e sto davanti a un computer, il mio corpo è letteralmente un sostegno per la mia testa. La magrezza non sarà mai un requisito indispensabile nella mia vita, a nessuno frega niente dei miei nuovi accumuli di adipe. Frega solo a me, che sono anche la stessa persona che si rifiuta di fare sport con costanza e usa la besciamella come passepartout della propria cucina.

L’alleata

L’accettazione è dunque l’unica via, in questo marasma di contraddizioni che è l’esperienza femminile, ed è una via assai più percorribile quando l’ondata di ormoni si placa e io torno a percepirmi donna umana e non più secchio dell’umido. Questa settimana, durante una pericolosa congiunzione di pre ciclo, compleanno e meteo infame, ho trovato un’alleata importante e inaspettata in Kim Kardashian.

Lo so che questa affermazione scricchiola e che la donna che con ogni evidenza ha rinunciato ai propri organi interni per partecipare all’ultimo Met Gala, e da anni offre al mondo standard di bellezza irraggiungibili, difficilmente sarà di ispirazione quando si tratta di fare i conti con le imperfezioni della propria forma fisica. Eppure oggi le sono molto grata.

Da qualche settimana alla Rinascente di Milano è sbucato un angolo di Skims, il suo marchio di intimo e abbigliamento contenitivo che dona a tutte le donne e rimodella le trippe. Ha prezzi accessibili e a differenza delle collezioni di altre imprenditrici digitali di cui non faremo nomi, è all’insegna della sobrietà e del minimalismo. No ai glitter e alle stampe denim, sì al color carne (di tutte le carni) e agli scolli a barchetta.

Considerata la provvisorietà del punto vendita e la mia ormai imperitura passione per tutta la famiglia Kardashian, in un momento di scarsa tolleranza verso le mie cosce mi sono diretta allo stand della Rinascente, determinata a cambiare connotati. Sono andata in camerino con un vestito nero a maniche lunghe, mi sono fatta una foto allo specchio e l’ho mandata alle mie amiche, senza nascondere un certo compiacimento. «Glieli diamo questi 100 euro a Kim Kardashian?», ho scritto in un paio di chat di femmine, sentendomi improvvisamente bellissima. Le risposte delle mie amiche, in termini più o meno volgari, erano unanimi: dalle tutti i tuoi soldi.

Un po’ costernata all’idea di arricchire una ricca, ma piacevolmente sorpresa dallo sconto che a quanto pare si riceve nella settimana del proprio compleanno, ho percepito la congiunzione malefica districarsi e riallinearsi in un ordine nuovo e armonioso, gli ormoni pazzi hanno lasciato il mio corpo per essere rimpiazzati da un sentimento di calore e gratitudine verso me stessa, ma soprattutto verso Kim e le sue mutande.

È la menzogna efficacissima della cosiddetta body positivity a cui abbiamo deciso di adeguarci tutte: nel migliore dei mondi possibili – che è anche il più ipocrita – accettarsi è facile, ma gratis no.

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