Il gioco delle parti tra destra moderata ed estrema si vede nella questione dei diritti. La tensione esplode come i bottoni del doppiopetto troppo stretto col quale la destra postfascista si presenta al mondo liberale. La distanza tra il ministro Guido Crosetto e i pretoriani Giovanni Donzelli e Galeazzo Bignami sul vademecum illiberale dell’ex-parà Roberto Vannacci si misura qui; e mostra l’incapacità della destra di farsi conservatrice, nonostante i tentativi di Meloni di vendere questo prodotto all’estero. Ma la diplomazia oltre confine non prova nulla. Chi voglia farsi un’idea della destra dovrebbe trascorrere qualche giorno in Italia, e magari leggere il bestseller di Vannacci. Intorno al quale si sta coagulando una larga alleanza: militanti dell’autenticità contro il politicamente corretto; coraggiosi nel dire senza peli sulla lingua quel che hanno in testa, contro la vigliacca civility.

La colla è l’allergia per i diritti, col corollario che l’odio sia da proteggere col diritto, non una passione da limare e contenere come cercano di fare i diritti. Che insegnano a distinguere tra rispetto delle persone e condivisione delle loro idee e scelte di vita. Le forme linguistiche ne sono la cornice. Ma nel Bel Paese, i diritti sono armi contundenti in mano a chi ha potere per dare libero sfogo alle passioni primarie: ecco il mito dell’autenticità. Qui si tocca con mano l’inaffidabilità liberale della destra.

L’attacco dei pretoriani al «politicamente corretto» merita tutta la nostra attenzione; non è folclore. È attacco alla civility (all’urbanità), condizione essenziale delle società democratiche, che sono aperte e plurali; abito che ci protegge dall’intolleranza ispettiva degli altri e dello stato.

Judith Shklar associava l’ipocrisia al liberalismo della paura. Senza la quale non c’è società ma serraglio, non ci sono cittadini/e ma militanti fondamentalisti (se i pretoriani leggessero bene Oriana Fallaci scoprirebbero che le vomitate di Vannacci sono molto simili a quelle dei fondamentalisti islamici contro le forme di vita non islamiche). La virtuosa ipocrisia ci salva dall’autenticità del dire. E il politicamente corretto – criticabile se diventa un’autenticità rovesciata — è il galateo delle nostre società.

L’autocontrollo e la dignità

I pretoriani lo criticano perché, dicono, educa a preferire il quieto vivere alla "libertà" di dire quel che si pensa nelle forme maschie e dirette. In realtà, l'autocontrollo del modo di esprimere le nostre idee è la condizione affinché la nostra dignità non sia mai calpestata. Non è un invito all’indifferenza perché non insegna solo ad astenersi dal danneggiare (e le parole sono capaci di danneggiare) ma anche al fare rispettoso. Si inizia col non danneggiare e ci si educa poco a poco al rispetto. È questa la seconda natura delle società liberali.

Siamo sicuri che gli autentici che se ne infischiano dell’urbanità siano liberi dal politicamente corretto? L’atteggiamento razzista non è mai «un fenomeno isolato» e se una persona ha il coraggio di rivelarsi razzista in pubblico è perché sa di poter contare sulla simpatia di chi gli sta accanto. Il razzista ha un comportamento radicalmente ipocrita dunque; è massimamente conformista: se si scoprisse solo in una moltitudine di non razzisti, molto probabilmente tacerebbe.

Una società governata da persone che sono ipocrite a rovescia, cioè convinte di essere autentiche, è illiberale, intollerante e potenzialmente violenta. L’Italia è governata da persone che hanno questa cultura.

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