Ricordo in modo assai vivido la sensazione di sorpresa quando, qualche anno fa, in una lezione sulla violenza di genere, volli leggere e commentare il testo di un brano di un noto trapper italiano, al tempo al centro di accese polemiche. Non mi stupì tanto l’immagine lì offerta della donna, ritratta come l’oggetto di un amore proprietario e studiatamente arcaico, campo di contesa tra maschi intenti innanzitutto a rivendicare quarti di criminalità.

Mi stupì piuttosto la difficoltà di studentesse e studenti, giovani sì ma non imberbi, nel percepire e riconoscere la gravità di quell’immagine, come se la ripugnanza per certi contenuti possa perdere in intensità quando questi vengono veicolati da una sedicente forma d’arte.

D’altro canto, basta farsi un giro anche rapido per certi generi musicali, più o meno popolari, o certe opere cinematografiche destinate al grande pubblico, per comprendere come ampia parte delle produzioni culturali nostrane s’ispiri ancora a una costellazione di valori che sembrano provenire da un mondo ancestrale, molto duro a morire, al netto di ogni vantato progressismo.

Si potrà quindi provare orrore – e quanto giustificato – quando ci s’imbatte negli stralci delle chat di quei ragazzi che a Palermo il 7 luglio scorso hanno stuprato una giovane donna. E si potranno invocare censure o limitazioni su un mercato pornografico a portata di smartphone e minorenni (tema posto dalla ministra della Famiglia e delle pari opportunità Eugenia Roccella durante il Meeting di Rimini).

Eppure dubito che sdegno e censura offrano una qualche soluzione di successo, come d’altronde la proposta della castrazione chimica per chi commette reati a sfondo sessuale (proposta che per suo conto tradisce una concezione assai poco illuminata della pena nel nostro ordinamento costituzionale – ma questo è un altro discorso).

Soluzioni limitate

Si tratta di soluzioni a basso costo, che confondono un fenomeno di portata vasta e capillare con le sue manifestazioni più vistose e virulente. E il problema più rimarchevole è che soluzioni così inefficaci rischiano, volontariamente o meno, di occultare la sorgente di tanto inumana violenza, come se questa traesse vita da un’inesplicabile processo di generazione spontanea.

Scrivo “volontariamente o meno” non certo per imputare ad alcunə una cattiva coscienza sul reato di stupro, bensì perché spesso si fatica, come nell’esempio fatto in apertura, a comprendere quali siano le fonti avvelenate da cui quei ragazzi hanno tratto un immaginario e un lessico tanto miserabili e brutali.

Il rischio massimo è quindi che casi come quelli di Palermo facciano da impudica foglia di fico per un fenomeno ben più diffuso, benché in forme assai meno violente. E su questa svista, intenzionale o meno, si fonda l’ipotesi un poco azzardata di alcuni membri del governo per cui sarebbe possibile conciliare senza troppa fatica due estremi opposti: la cultura della più estesa e affrancata libertà di parola e una concezione censoria e vendicativa della giustizia penale.

Come se, ad esempio, da una parte, si permettesse di dire, anche a chi ricopre incarichi di valenza istituzionale, che gay e lesbiche sono raggelanti aberrazioni di un ordine culturale da basso impero e, dall’altra, si intervenisse con le forze armate speciali qualora a un cittadino o una cittadina venisse in mente di commettere violenze su quelle aberrazioni.

Beninteso: chi scrive nutre la radicatissima convinzione che le libertà di pensiero e di parola debbano essere massime e che la censura sia la più miope e inefficace delle armi repressive. Tuttavia, la singolare giuntura tra libertarismo ad hoc e repressione generalizzata ha il difetto di trascurare il costo individuale e pubblico delle parole, assieme alle responsabilità che ne derivano per chi le pronuncia.

Una giustizia nuova

All’opposto, casi delicatissimi e carichi di sofferenza come lo stupro di Palermo potrebbero offrire l’occasione per un rinnovato senso di giustizia alternativa. Penso in particolare a quelle proposte di giustizia non vendicativa, libera dalla coazione a punire, che ripensano i processi penali come momenti di attività condivise per la riparazione dei torti, persino i più gravi.

La giustizia tratteggiata da quelle teoriche femministe che immaginano modalità alternative di gestione dei reati, in cui un gruppo ampio di persone (ben più ampio che l’uomo, la donna e le loro difese di parte) adotta un modo partecipato per individuare lo sfondo dell’accaduto e capire come poter porre riparo al meglio.

Una giustizia, questa, che rompe sin da principio con i facili prototipi della donna vittima e dell’uomo carnefice e che dà vita a impegnative attività di riflessione e presa di coscienza collettiva (si veda il recente libro di Giusi Palomba, La trama alternativa, Minimum Fax 2023).

E se tutto questo al momento sa ancora di avveniristico, l’auspicio è che si rafforzi la percezione del diffusissimo nostro debito di educazione sessuale e affettiva, a dispetto di ogni pretesa superiorità morale. Per evitare il prodursi di mali radicali come lo stupro, la cura più efficace è un più avvertito senso di quella violenza, meno percettibile, di cui sono intrisi i modelli comuni di relazionalità – assieme forse a una maggiore contenzione verbale da parte di chi ricopre incarichi istituzionali. 

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