C’è voluta qualche settimana perché il presidente del Senato Ignazio La Russa si risolvesse ad adottare un basso profilo nella vicenda che coinvolge suo figlio Leonardo, accusato di violenza sessuale. Le prime esternazioni del politico, però, erano state paradigmatiche. Rovesciando sulla denunciante una serie di contro-accuse (drogata, millantatrice, mancava solo di facili costumi) La Russa non aveva fatto altro che anticipare i classici argomenti che nei tribunali vengono effettivamente snocciolati dagli avvocati della difesa.

La denuncia di una violenza finisce spesso per diventare un ulteriore calvario, un processo al contrario giocato sulla decredibilizzazione delle testimonianze. Il mondo allora si sfalda in un’allucinazione in cui nessuna cosa è reale “oltre ogni ragionevole dubbio”. Si cerca la “vittima perfetta” e non la si trova. Non sempre, d’altronde, c’è un “colpevole perfetto”. 

L’invasione di campo del presidente del Senato è stata ampiamente condannata, mentre resta sostanzialmente irrisolto il nodo – ben più drammatico – del sistema con cui viene “fatta giustizia” in casi del genere. D’altronde sarebbe pericoloso rinunciare alla presunzione d’innocenza. Negli ultimi anni, come ha scritto The Intercept, sono esplose le contro-cause per diffamazione ai danni delle donne che denunciano. Dove stiamo sbagliando?

Processo e contro-processo

È come se l’accertamento della verità giudiziaria, soprattutto quando si affrontano in tribunale la parola dell’uno contro quella dell’altra, inevitabilmente richiedesse la reciproca mostrificazione. A contrapporsi non sono più due persone, ma due strategie processuali. Si ripensi alla sentenza del 2015 per lo stupro della Fortezza da Basso a Firenze, dove venne soppesata la sessualità anticonvenzionale della vittima – una sentenza molto discussa, poi sanzionata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, per essere incorsa in una “vittimizzazione secondaria”.

Nel processo l’attenzione si sposta dall’evento in sé, stratificato come nel Rashomon di Kurosawa, al giudizio sulla moralità dei suoi protagonisti. Le parti non sono in alcun modo spinte a cooperare per negoziare una versione dei fatti condivisa, ma incentivate ad annientarsi a vicenda. Finché dove prima c’erano due persone non resta nient’altro – per l’intera società e per il resto della loro vita – che una vittima e un colpevole. Nessuna verità, nessuna redenzione, nessuna rieducazione. E forse neanche nessuna dissuasione, dal momento che tutto viene fatto per occultare le cause fin troppo banali che portano all’evento traumatico. Il sesso non consensuale continua a essere pensato unicamente secondo la stereotipo dell’aggressore sconosciuto nel vicolo buio.

Ma l’epidemia di denunce degli ultimi anni riguarda casi diversi, che meriterebbero ben altro approccio. Nella zona grigia tra due reati facilmente identificabili – da una parte la coercizione fisica o chimica, dall’altra la diffamazione – esiste uno spettro fin troppo ampio di situazioni frequenti e di esperienze traumatiche, di prepotenze, di ricatti, di malintesi, di clash culturali, di rapporti di forza. 

Queste situazioni grigie devono essere prevenute, ed evidentemente non stiamo ancora facendo abbastanza; ma non dovrebbero esserlo attraverso una repressione di massa, militarizzando lo spazio sociale o auspicando una nuova “grande reclusione”. Queste esperienze reclamano giustizia; ma è una giustizia che i tribunali faticano a produrre. Il problema è che l’attuale sistema di risoluzione delle controversie appare sempre più inadeguato. E se ne esistesse un altro?

Altra trama

Forse esiste. Lo racconta un libro di Giusi Palomba da poco uscito per minimum fax, La trama alternativa: un oggetto ibrido, tra il saggio e il romanzo, che offre il racconto dettagliato di un esperimento di giustizia molto diverso.

Palomba racconta la sua esperienza barcellonese, quella di un attivista accusato di violenza che viene sottoposto a una particolare procedura interna alla comunità militante, per precisa volontà della vittima – la quale probabilmente non sarebbe stata presa sul serio dalla giustizia regolare, per la quale la zona grigia non esiste. Qui invece nessuno cerca vendetta. Nessuno vuole mandare in carcere o mettere in difficoltà una persona economicamente fragile. Nessuno vuole nemmeno «ricostruire una sequenza di eventi» bensì «constatare che la donna ha vissuto qualsiasi cosa sia successo» e indipendentemente dalla convinzione del suo responsabile, «come una violenza». 

Perciò all’attivista accusato viene chiesto di seguire «un percorso collettivo per comprendere l’impatto della sua violenza e cercare di ripararla». Questo significa per lui, tra le altre cose, sacrificare la sua posizione all’interno dell’organizzazione e i suoi incarichi pubblici: accettare di fare un passo indietro, fino a scomparire, lasciando spazi ad altri e ad altre. Può suonare un po’ hippie, scrive Palomba, eppure questo protocollo ha permesso di evitare sia una colpevolizzazione sterile che una repressione brutale, approdando a una sorta di riparazione del male commesso. E senza fornire nessun pretesto alla macchina securitaria dello stato per estendere il suo monopolio della violenza.

Verità e riconciliazione

Questo può funzionare soltanto se il contrappasso risulta davvero all’altezza del torto subito, e la giustizia alternativa non appare alle vittime come una giustizia minore. Non si appaga la sete di giustizia con i buffetti e le sanzioni amministrative. 

Perciò sono necessarie nuove e solide istituzioni, per questo stanno già apparendo informalmente dalle singole comunità, prendendosi carico di ciò che lo stato non riesce a fare (nella società patriarcali lo faceva la famiglia estesa o il clan). Sappiamo che sarebbero molte di più le controversie che meriterebbero giustizia, ma non possono essere portate tutte a processo: scoppierebbero le carceri.

L’esperienza barcellonese ricorda quella della giustizia transizionale in Sudafrica. Nell’impossibilità di processare l’intera popolazione bianca che aveva, in un modo o nell’altro, contribuito all’apartheid, si è preferito allestire una Commissione per la verità e la riconciliazione. I bianchi venivano incentivati a confessare in maniera trasparente le loro responsabilità così che fosse possibile negoziare una verità condivisa. Se quella che stiamo vivendo oggi nei rapporti tra i generi è una rivoluzione anche solo minimamente paragonabile, allora quel modello potrebbe essere produttivo.

L’alternativa all’alternativa, spiega Palomba, è poco auspicabile: “femminismo carcerario” nel migliore dei casi, incubo burocratico-repressivo nel peggiore, confusione di “giustizia e punizione” in generale. Come se l’unica giustizia possibile per i casi nella zona grigia fosse quella penale.

Nuove regole del gioco

Scrive ancora Palomba: «Credo senza indugi a una donna che ha subito un’aggressione, ma l’idea che chi l’abbia aggredita venga rinchiusa per anni mi risulta angosciante». Se questo approccio può sembrare debole e idealista nei casi penalmente rilevanti, quelli fuori dalla “zona grigia”, esso costituisce probabilmente l’unico modo di ottenere giustizia per ciò che accade al suo interno.

Si ripete spesso che la soluzione non è proteggere le donne, ma educare i maschi. Il problema di questa soluzione è che nessuno sa precisamente che cosa insegnare ai maschi né come insegnarglielo. La vera urgenza, oggi, è stabilire dei codici minimi, delle “regole del gioco” condivise (Palomba cita le leggi spagnole sul consenso). Regole che, tra le altre cose, impediscano a politici di alto rango, cresciuti negli anni della rivoluzione sessuale, di cadere dal pero quando gli si fa notare che certi comportamenti sono socialmente distruttivi.

Ma se per cambiare il mondo accettiamo di delegare l’autonomia degli individui e delle comunità a poliziotti, burocrati e algoritmi, allora il mondo che avremo costruito sarà il più pervasivo dei dispotismi tutelari. Forse si tratta del destino inevitabile per una civiltà che produce rischi di ogni genere, ma l’idea che esistano delle forme di regolazione dal basso lascia sperare in un’alternativa.


La trama alternativa. Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere (minimum fax 2023, pp. 243, euro 18) è un libro di Giusi Palomba

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