La sentenza sulla sanzione inflitta a Christian Raimo per le critiche al ministro Valditara mostra come le regole di condotta per i pubblici dipendenti siano formulate in modo molto generico: ciò li espone al rischio che chi esercita il potere disciplinare ne faccia un uso arbitrario e che ad essere giudicate siano le opinioni, quando scomode, più che i comportamenti
Su Domani Christian Raimo ha commentato la sentenza con cui il Tribunale del lavoro di Roma si è espresso sul suo ricorso contro la decisione che lo aveva punito con tre mesi di sospensione dal servizio, e altre sanzioni aggiuntive, per le forti critiche rivolte al ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara.
I giudici hanno riconosciuto, da un lato, che l’espressione usata da Raimo era inadeguata – l’insegnante aveva definito «lurida» l’idea del ministro sulla scuola – ma, dall’altro, che la punizione originaria era sproporzionata, per cui l’hanno annullata e sostituita con dieci giorni di sospensione.
La sentenza
Le critiche di Raimo nei confronti del ministro dell’Istruzione, secondo il tribunale, sono state formulate con toni sicuramente duri, ma il contenuto rimane nell’alveo della critica politica, rivolta a idee ed indirizzi istituzionali, non a persone.
Per i giudici, manifestazioni forti di dissenso non equivalgono in automatico a una violazione grave di doveri professionali. Per quanto le parole usate potessero apparire inappropriate o irrispettose, esse non hanno concretizzato una condotta connotata da «caratteri di particolare gravità», tale da giustificare una sanzione così afflittiva come tre mesi di sospensione. Perciò il tribunale l’ha ridotta.
Raimo ha riconosciuto l’importanza della sentenza, che dà rilievo alla libertà di espressione, bilanciandola con il diritto al lavoro, entrambi valori tutelati costituzionalmente. Ma al contempo ha lamentato il fatto che, per il tribunale, criticare «le idee di un ministro aggettivandole come luride», travalichi «i limiti della correttezza e dell’educazione, anche se non riferiti ad una persona ma ad un pensiero». In base a quali criteri è stato deciso dall’Ufficio scolastico regionale del Lazio, prima, e dai giudici, poi, che le parole dell’insegnante avessero superato quei limiti?
Norme vaghe
La questione impone qualche considerazione sul piano del diritto. Le regole disciplinari che vincolano i pubblici dipendenti, come quelle contenute nel Codice generale di comportamento (DPR 62/2013, modificato dal DPR 81/2023), non specificano con chiarezza quali condotte costituiscano una violazione di quanto sancito. Sono presenti formulazioni molto ampie, come «non nuocere all’immagine della pubblica amministrazione» e mantenere, anche fuori servizio, una condotta «decorosa» e «corretta». Si tratta di obblighi ribaditi dal Codice interno del Ministero dell’Istruzione – applicabile in questo caso, che vede coinvolto un insegnante, sanzionato proprio in base a tale Codice – e, comunque, comuni a tutte le amministrazioni.
Le formulazioni contenute nei citati codici non precisano quali espressioni o condotte, in concreto, siano consentite e quali no. Sarebbe opportuno precisare, anche mediante linee guida interpretative, criteri applicativi che – delimitando il confine tra doveri di comportamento e libertà di espressione – permettano di conoscere preventivamente ciò che va oltre i confini della correttezza e dell’educazione e ciò che invece rientra nel normale dissenso politico.
Diversamente, come evidenziato dal Consiglio di Stato in sede consultiva sul citato Codice generale, i pubblici dipendenti restano esposti «agli eccessi degli spazi interpretativi d’intervento» da parte di chi ha il potere di sanzionarne i comportamenti. E, quando il confine tra una critica legittima e un danno d’immagine è valutato con quest’ampia discrezionalità, il rischio è che se ne faccia un uso arbitrario e che ad essere giudicate siano le opinioni, specie quando scomode, più che i comportamenti. La mancanza di criteri chiari e sufficientemente puntuali in base ai quali vagliare certe condotte si riflette, poi, nelle decisioni assunte nelle sedi giudiziarie.
Questo può costituire un deterrente alla libera espressione del pensiero: ogni affermazione critica può diventare un potenziale illecito disciplinare. Ciò è incompatibile con una democrazia che voglia proteggere non solo la dignità delle istituzioni, ma anche il pluralismo delle idee.
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