Il governo Draghi è sempre stato un esperimento temporaneo. E prolungarlo, nella sua versione attuale o in quella sublimata della “agenda Draghi”, è sempre stata la posizione di chi temeva l’esito delle elezioni. Eppure a sentire l’intervento del presidente del Consiglio al meeting di Rimini si capisce che c’è una più che legittima richiesta di continuità: quella di metodo, di contenuto e, perché no, di stile.

Dopo due giorni di polemiche su Giorgia Meloni che fa campagna elettorale sugli stupri ed Enrico Letta che procede a colpi di slogan incomprensibili (“occhi di tigre”, “viva le devianze”), vedere Draghi genera subito nostalgia per un’occasione mancata.

Il governo Draghi ha dimostrato limiti strutturali dovuti alla formula politica alla sua base e al contesto (e forse anche alle ambizioni quirinalizie, frustrate, del premier), ma ha creato un chiaro termine di paragone. Che parli di guerra, di gas, di ambiente, Draghi usa toni e argomentazioni che permettono una discussione di merito.

Si può essere d’accordo o meno (dal tetto al prezzo alle risposte all’inflazione), ma la politica di Draghi è una politica che ha numeri e argomentazioni, ci sono ipotesi di partenza, opzioni disponibili, scelte su quali risposte dare.

Il governo Draghi si può analizzare, e criticare, perché si è mosso in uno spazio sgombro dalla propaganda.

Segnale e rumore

Per usare il gergo della statistica, è possibile individuare il “segnale” perché il “rumore” è poco. Conta anche il fatto che Draghi abbia scelto una comunicazione istituzionale, anche furbetta e ammiccante in molte occasioni, ma a suo modo trasparente: conferenze stampa invece che talk show, interventi scritti più che retroscena sussurrati da qualche portavoce.  

Come già fu ai tempi del governo Monti nel 2011, per l’elettore (ma perfino per il giornalista) è sempre uno shock scoprire che anche in Italia si può avere una discussione politica nel perimetro della razionalità, che riguarda le azioni invece che le motivazioni, i risultati e non i toni, che si fonda su numeri invece che su post Instagram.

Dunque, è più che legittimo – perfino necessario – archiviare l’esperienza dell’eterna “grande coalizione” all’italiana che è la negazione di una democrazia dell’alternanza. Ma non c’è alcuna ragione per pensare che il “metodo Draghi” e quello stile debbano essere confinati a una parentesi.

 «L’Italia ce la farà, anche questa volta», è un tipo di messaggio che trasmette solido ottimismo molto più di tutti gli sproloqui sul patriottismo, la nazione, e il popolo che attraversano gli schieramenti.

La nettezza di posizioni sull’Ucraina sulla necessità di emanciparsi dalla Russia, la scelta delle priorità  (aprire le scuole anche a rischio di contagio) evitano quella zona grigia nella quale nessuno è responsabile  dei problemi ma tutti condividono i meriti.

Le forze che si richiamano all’eredità di Draghi – dal Pd al centro di Azione-Italia viva – dovrebbero essere le prime a imitarne la gravitas e la serietà, invece che sbrodolare i loro umori su Twitter.

I programmi non hanno numeri, non ci sono le coperture (cioè le risorse necessarie) ma spesso neppure gli obiettivi e i risultati attesi. Soltanto “rumore” senza “segnale”.

Chi vuole governare il paese trova in Draghi un esempio di approccio, i contenuti – lo ha detto lo stesso premier – ce li devono mettere i partiti e gli italiani. A metà del paese andranno bene, l’altra metà protesterà.

Ma riportare toni, modi, e livello del dibattito alle bassezze che abbiamo conosciuto in passato nell’epoca pre-Draghi potrebbe scontentare tutti.

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