Che si tratti di una disputa coniugale su orologi pregiati o di una catastrofe naturale, nell’era digitale l’interesse del pubblico per qualsiasi notizia decade in pochi giorni. Cosi’ e’ stato anche per l’invito a duello, la scorsa estate, di Elon Musk a Mark Zuckerberg. L’imprenditore di Tesla, SpaceX, Starlink e X/Twitter non aveva apprezzato l’annuncio del proprietario di Meta (Facebook, Instagram, Whatsapp) di voler creare una piattaforma simile a Twitter, e ha proposto di affrontare il rivale in un incontro di Mixed Martial Arts, il cui ricavato sarebbe andato in beneficenza. Proposta accettata (ma battaglia mai avvenuta). 

In casi come questo, verrebbe da dire, la rapida perdita di risalto e’ una benedizione. Ci ha però colpito il valore simbolico di questa vicenda che tanto racconta sia di come si sia sviluppata l’industria dei big tech, sia della discrepanza fra i valori promessi e quelli poi promossi da queste imprese. L’invito a duello e’ parte di quel sovraccarico informativo a cui siamo continuamente sottoposti, per la maggior parte con messaggi semplici e viscerali nella speranza che qualcuno diventi virale (come molto di cio’ che viene dalle dalle viscere). I proprietari di piattaforme di social media lo sanno bene e non possono non considerare che segnale questa iniziativa trasmetta, e il suo effetto economico e sociale. Come mai in questo caso, per usare la celebre frase di Marshall McLuhan, il mezzo e’ il messaggio. E, quando il messaggio viene da due delle persone più potenti al mondo, vale la pena analizzarlo.

Due ci sembrano le chiavi interpretative e riflessioni rilevanti: il modello di cui sono espressione i contendenti, e il sistema valoriale che caratterizza questo modello. Emerge innanzitutto una visione del mondo basata su rapporti di potere, specialmente quello dei gruppi dominanti (maschi, bianchi, etero) sulle minoranze, e’ importante: la scelta della lotta fisica implica un vincitore e un vinto, come le lotte dei maschi di molte specie animali. La stessa logica della prevaricazione pervade la cultura e la pratica delle tech companies, a dispetto della narrazione che le vuole portatrici di libertà ed emancipazione. Nell’economia digitale non si compete con altre imprese ma le si demolisce ("disrupt"; “move fast and break things”); un nuovo prodotto, quando ha successo, e’ un “killer”; i siti internet sono registrati come “domini” (domains); le ricerche su internet sono “esplorazioni” – un termine che a noi puo’ sembrare neutro o positivo, ma che alla parte del mondo che nei secoli ha avuto a che fare con “esploratori” invoca ruberie, violenza e morte. Più in generale, espressioni che sono entrate nell’uso corrente contribuiscono a normalizzare un’economia e una società basate sul dominio del più forte. Un’evoluzione dell’economia digitale molto patriarcale, insomma, in cui un soggetto (il maschio, la grande piattaforma) prevale sugli altri, specie se non conformi, e questi altri vengono continuamente sedotti a seguire il soggetto dominante, in questo mondo e anche negli altri (Marte, la Luna, il metaverso) che proprio i padroni della rete dicono di voler raggiungere, o colonizzare (appunto), una volta finite le risorse su questo.

La messinscena, vera o virtuale, dei due imprenditori legittima ulteriormente tutto questo nell’immaginario collettivo, come se non ci fossero alternative a questo modo di rapportarsi e di organizzare il vivere comune.  

E invece le alternative ci sono, o ci sarebbero state. Non c’e’ molto di naturale nel modo in cui l'economia digitale – la gestione delle imprese, i modelli di business, i rapporti di forza fra piattaforme, fornitori, lavoratori e consumatori, il controllo della rete – si e’ sviluppata. Figure molto prominenti nella creazione della rete e nelle applicazioni delle tecnologie digitali, come Aaron Schwartz, Jaron Lanier o Meredith Whitaker hanno a lungo proposto regole e organizzazione che fossero veramente fedeli all'idea della rete come forza democratica e liberatrice tramite la produzione e condivisione di conoscenza, distribuita e non concentrata, per garantire inclusione, pari opportunita’, liberta’ di espressione e controllo democratico. Una versione globale della “sfera pubblica” teorizzata da Jurgen Habermas come forma di dialettica democratica e argine agli abusi di potere. E’ invece prevalsa a partire dagli anni Novanta, per una commistione di interessi economici, influenze politiche, e ahinoi, legittimazione della comunita’ scientifica, una visione della rete come luogo franco e non regolabile, diverso da quelli fisici dell’industria o dell’editoria tradizionale, per esempio. La mancanza di regole ha finito per favorire l’emergere di posizioni dominanti, con il controllo su servizi essenziali per il funzionamento di una democrazia, come l’informazione. Il modello di business delle principali piattaforme, basato sugli introiti pubblicitari e quindi sulla ricerca del maggior traffico online possibile e sull’individuazione dei gusti individuali per indirizzare messaggi promozionali piu’ efficaci, ha incentivato forme di sorveglianza e invasione della privacy mai sperimentate prima, e non ha posto argine alla propaganda e disinformazione purche’ questa generasse piu’ presenza e coinvolgimento sulle piattaforme. Nell’immaginario collettivo, il successo di queste imprese si e’ poi accompagnato alla mitizzazione di imprenditori con interessi e una visione del mondo che mal si conciliano con la ricerca di un benessere condiviso e sono invece orientati a una societa’ divisa fra i pochi che beneficiano dalle nuove tecnologie, e i molti che non vedono un ritorno e nemmeno una speranza. Non deve nemmeno stupire, quindi, il preponderante dominio maschile nell’economia digitale.

Nel loro libro “Power and Progress”, gli economisti Daron Acemoglu e Simon Johnson criticano l’ottimismo e determinismo tecnologico dominante, secondo cui e’ la societa’ che si deve adattare allo sviluppo tecnologico; questa, secondo loro, e’ la ricetta per mantenere lo status quo di un mondo che le tecnologie digitali e l’intelligenza artificiale, per come si stanno sviluppando, hanno contribuito a rendere piu’ diseguale e meno giusto. L’opposto sarebbe auspicabile, e cioe’ che siano la società, la politica e il processo democratico a orientare la direzione e le forme del progresso tecnologico, affinche’ i vantaggi siano condivisi in modo piu’ inclusivo. Questa posizione piu’ progressista e’ tuttavia minoritaria, mentre ne prevale una piu’ reazionaria e conservatrice, gerarchica e patriarcale, ostile al processo deliberativo che dovrebbe caratterizzare le democrazie. Non sorprende quindi la vicinanza, per esempio, fra Elon Musk e la destra internazionale, da Trump negli Stati Uniti, a Javier Milei in Argentina, a Giorgia Meloni in Italia.  L’Italia peraltro avrebbe dovuto offrire un teatro per il duello, cosi’ da evocare la mitologia dell’antica Roma; non quella vera pero’, Hollywood che permette ancora una volta di riproporre la versione americana della storia mondiale che avrebbe per l’appunto al suo apice il modello di successo americano e in particolare i due imprenditori come suoi massimi esponenti. E invece di stanare la buffonata, il governo italiano ha risposto entusiasta.


La proposta di tenzone fra Musk e Zuckerberg e’ insomma molto più politica ed influente di quanto sembri. E poco importa se i due “ci sono o ci fanno”. Se ci sono, ovvero ritengono che il duello fisico sia il modo di risolvere problemi complessi, dobbiamo chiederci quanto siamo tranquilli a lasciare il mondo in mano a persone cosi’. Se invece ci fanno, e si e’ trattato solo di una mossa pubblicitaria, cio’ significa che i due presumono che le persone si eccitino davanti a lotte in una gabbia, e coi loro mezzi e il controllo dell’informazione continueranno a titillare questo tipo di pulsioni. Non e’ rassicurante nemmeno la promessa di destinare i proventi del duello in beneficenza – una filantropia di facciata che e’ spesso invece una forma estrema di paternalismo, in cui pochi “elevati” si auto-attribuiscono il potere di decidere l’uso sociale di enormi somme di denaro. Pagare tutte le tasse dovute e lasciare al processo democratico-rappresentativo la determinazione del miglior impiego di queste risorse segnalerebbe una mentalita’ piu’ aperta all’inclusione, alla diversita’, e alla condivisione del benessere. Ma come ci insegna la favola, lo scorpione segue la sua natura e, nonostante le promesse, finisce per pungere la rana. E tuttavia, non c’e’ niente di inevitabile nel comportarsi come rane o nel fidarsi degli scorpioni.

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