Il libro Il diritto di contare (Hidden figures) di Margot Lee Shetterly, e il film omonimo del 2016 ad esso ispirato, raccontano la storia di tre scienziate afroamericane e del loro successo nel programma della Nasa che preparò il primo viaggio nello spazio da parte dell’agenzia spaziale nordamericana, e poi lo sbarco sulla Luna. È la storia affascinante e coinvolgente di persone svantaggiate – donne, giovani, afroamericane – che riuscirono ad affermarsi in un ambiente dominato da maschi bianchi.

Dagli anni Sessanta, negli Stati Uniti, la straordinaria storia di Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson cominciò ad essere meno eccezionale: la percentuale di donne che si laureavano in informatica, così come in medicina o legge, stava crescendo significativamente, facendo presagire una progressione verso l’uguaglianza tra generi nel mondo delle professioni. Qualcosa tuttavia cominciò a cambiare a partire dai primi anni Ottanta. Se, da una parte, la percentuale di donne che studiavano legge o medicina continuava ad aumentare, questo non successe per informatica, dove la progressione si arrestò.

Videogiochi maschili

La ricercatrice Jane Margolis, dopo aver intervistato studenti e studentesse in un’importante università americana, osservò che la disciplina dell’informatica si era progressivamente identificata col personal computer, emerso alla fine degli anni Settanta, invece che con le enormi stazioni di calcolo dei decenni precedenti. Il personal computer, a differenza delle stazioni di calcolo, non era solo un mezzo di programmazione; con il Pc, i videogiochi entrarono nelle case. E, nel sentire comune, erano soprattutto i giovani bambini e ragazzi ad appassionarsi di videogiochi. Così, mentre alle bambine venivano regalate bambole, cucine giocattolo e vestiti, il computer divenne un regalo popolare fra i maschi, che, oltre ai videogiochi, ebbero quindi accesso al principale strumento di programmazione dell’epoca.

Di conseguenza, erano soprattutto i maschi ad avere occasioni di appassionarsi all’informatica, al punto di decidere di farne la propria carriera. La produzione culturale di quel periodo contribuì a consolidare la percezione diffusa: molti dei film degli anni Ottanta in cui l’informatica è protagonista, come La rivincita dei nerds o War Games, hanno maschi come protagonisti. Anche se in questo genere cinematografico viene meno lo stereotipo di mascolinità basata sulla prestanza fisica dell’uomo, rimane l’idea di un primato maschile basato invece sulle capacità intellettive.

La rivoluzione digitale dell’ultimo trentennio ha poi reso le competenze informatiche estremamente preziose sul mercato del lavoro e in generale nelle dinamiche dello sviluppo industriale, economico e sociale. Un settore sempre più dominato da uomini si è elevato alla cima della distribuzione di reddito, ricchezza, potere e status sociale. I nuovi eroi dell’era digitale sono ancora maschi, che creano il futuro nei loro garage o nei dormitori delle università (magari senza nemmeno laurearsi). Anche se piu’ in forme meno esplicite, nella produzione cinematografica e televisiva il genio continua a essere declinato al maschile e contrapposto a donne superficiali (si pensi alla serie The Big Bang Theory). 

La terra promessa, ma non a tutti

Il mito stesso della Silicon Valley come luogo del progresso, dell’apertura e delle opportunità per tutti è una narrazione quasi interamente maschile, e molto spesso smaccatamente maschilista. I recenti documentari su Steve Jobs e Bill Gates, il film The Social Network che racconta la nascita di Facebook, e il documentario The Social Dilemma evidenziano questa tendenza. Nel suo libro-inchiesta Brotopia la giornalista di Bloomberg Emily Chang racconta di come le donne, nella Silicon Valley, siano spesso non solo discriminate, ma anche umiliate e oggettificate. Osservatori e studiosi sostengono che una cultura d’impresa e modelli di business come quelli prevalenti nei settori high-tech – il mantra della crescita illimitata, della velocità e della “rottura” dell’esistente, o la fede nella meritocrazia – derivino anche alla sproporzionata presenza di uomini in quegli ambienti. Le discriminazioni verso donne e minoranze etniche che molti algoritmi di intelligenza artificiale producono, per esempio nel motore di ricerca di Google, sono anche il risultato di una programmazione degli stessi algoritmi, e di un uso della rete da cui provengono i dati che gli algoritmi elaborano, fatti principalmente da uomini. 

Lungi dalla promessa di creare opportunità per tutti e “democratizzare” la conoscenza, la rivoluzione digitale, con le sue origini ed evoluzione tecnica e culturale, rischia quindi di acuire alcune diseguaglianze di genere, come quelle relative alle capacità tecnico-scientifiche, rinforzando stereotipi pre-esistenti. Oggi sappiamo, infatti, che questi stereotipi cominciano ad agire in tenera età. Ad esempio, le bambine pensano che essere naturalmente “portati” per la matematica sia molto più importante che fare pratica per migliorarsi, e credono che i maschi siano appunto più brillanti per natura in questa disciplina. E un esperimento recente condotto sul forum online Mathematics Stack Exchange, dove oltre 10 milioni di utenti possono fare domande su problemi matematici e fornire risposte, ha mostrato che alcuni partecipanti sottovalutano sistematicamente l’attendibilità delle risposte date da donne, anche quando l’esperienza di una donna sulla piattaforma, e la soddisfazione di utenti precedenti per i suoi contributi, sono ben visibili.

La matematica roba da maschi?

L’evidenza disponibile ci dimostra, in effetti, che le differenze di rendimento in matematica e nelle scienze fra maschi e femmine esistono e che, anche a parità di risultati, ci sono differenze nella scelta di materie e facoltà scientifiche e matematiche. ll Timss (Trends in International Mathematics and Science Study) mostra che l’Italia ha il gap di genere più alto dei paesi Oecd alle scuole elementari, e i test Pisa hanno rivelato che il gap di genere a 15 anni nel nostro paese rimane uno dei più ampi dell’Oecd: 20 punti di differenza contro una media di nove dell’Oecd (OECD, 2016), con un gap che tende a crescere durante il percorso scolastico, secondo i dati Invalsi studiati da Dalit Contini, Marial Laura Di Tommaso e Silvia Mendolia.

Ma l’evidenza ci dice anche che le differenze sono dovute a fattori sociali e culturali, non certo a fattori innati legati al genere. Tra questi fattori, ci sono le norme e aspettative di genere prevalenti in una società, le aspettative dei genitori, degli insegnanti e degli studenti stessi, e la composizione delle classi. Questi gap si collegano poi ai divari salariali e di carriera tra uomini e donne, che a loro volta si riflettono in disuguaglianze che partono dal nucleo familiare (dove il potere decisionale del partner più debole economicamente è evidentemente minore) per coinvolgere tutta la società. La carenza di donne nelle professioni Stem (Science, Technology, Engineering, Mathematics), come hanno dimostrato ricerche del Fondo monetario internazionale, riduce inoltre produttività e innovazione. A fronte di queste tendenze spesso radicate nella società e nel tempo, è particolarmente preoccupante pensare che il tipo di sviluppo tecnologico che oggi guida l’economia possa rappresentare un ulteriore catalizzatore di queste disuguaglianze.

Il progresso tecnologico non è sempre inclusivo

La consapevolezza di queste dinamiche e delle loro conseguenze ha spinto sia ricercatori, sia diverse organizzazioni e istituzioni pubbliche e private, a intervenire e sperimentare diversi modi di ridurre le disparità di partecipazione e di rendimento nelle discipline tecnico-scientifiche fra i generi. Alcuni studi e interventi hanno considerato misure di attuazione relativamente semplice, come rivelare agli insegnanti i loro pregiudizi inconsapevoli, invitare scienziate nelle classi scolastiche per offrire modelli di riferimento diversi, o anche introdurre incentivi monetari per le ragazze che si iscrivono a facoltà scientifiche, come nel recente caso dell’Università di Bari. In altri casi si sono tentati approcci più elaborati, come l’introduzione di diversi metodi di insegnamento e risoluzione di problemi più inclusivi, o programmi per la gestione dell’ansia spesso legata allo studio e alle verifiche di matematica. Ad esempio, alcuni studi mostrano che le bambine hanno una maggior paura di “sbagliare” dei maschi, e questo può inibire il rendimento specie nelle materie tecnico-scientifiche.

Per tornare all’informatica, negli ultimi anni sono partite molte iniziative positive spesso finanziate dalle stesse Big tech, specie dopo che le diverse forme di pregiudizio e discriminazione al loro interno sono diventate di pubblico dominio. Un esempio è “Girls who code”, un’iniziativa mondiale che punta a stimolare l’interesse di bambine e ragazze per l’informatica. 

Rimane molta strada da fare per raggiungere equità e inclusione anche in questo mondo. Più alla radice, società civile e politica dovrebbero considerare con più attenzione che i cambiamenti tecnologici, e la direzione che impongono al cambiamento economico e sociale, non sono per loro natura “neutri” nella loro capacità di includere e soddisfare le esigenze di tutti. Paradossalmente, su alcuni temi di equità fra generi la rivoluzione digitale si è rivelata regressiva verso le donne. Un recente articolo sulla Mit Technology Review suggerisce che è arrivato il momento di immaginare una rete più femminista. E forse proprio dai videogiochi, che hanno contribuito a declinare la tecnologia al maschile, potrebbe arrivare un contributo: la percentuale di donne videogamers è arrivata quasi al 50 per cento, e chissà se questa massa critica sterzerà le nuove tecnologie verso una maggiore inclusione. 

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