Le parole sono importanti. Lo sapeva bene Nanni Moretti e sono certo che se lo ricordi altrettanto bene anche Enrico Letta. Per questo sono rimasto colpito dalla ricorrenza del termine di “processo costituente” per designare la road map dei prossimi passi congressuali. La prima cosa che colpisce è che ormai il Pd appare un partito la cui vita è scandita dal passaggio da un processo costituente a un altro. L’autonarrazione dominante è quella per cui ogni cambio di segreteria equivale a un nuovo e radicale processo costituente. Ma già questo dovrebbe farci stare sull’attenti.

C’è infatti un primo significato – maldestro dal punto di vista teorico, come vedremo – per cui noi siamo soliti pensare che un processo costituente non possa concludersi in se stesso, ma debba avere come proprio esito un’eredità durevole e permanente. Dovrebbe sedimentare qualcosa che possa essere l’orizzonte di senso e la cornice di ciò che accadrà dopo. Un processo costituente non può identificarsi con il cambio di segretario, piuttosto quest’ultima scelta dovrebbe avvenire all’interno di un partito già dotato – e orgogliosamente - di una propria costituzione, cioè di un orizzonte di senso e un’idea di sé in grado di reggere e orientare gli inevitabili cambiamenti nel corso degli anni.

Un processo costituente non deve semplicemente scegliere il capitano, deve prima dare la rotta. Il capitano è solo colui ritenuto di volta in volta il più abile nel perseguire tale rotta (mi rendo conto di quanto la metafora suoni rovinosamente salviniana). Sarà per questo che sentire per l’ennesima volta evocate queste parole mi lascia sospettoso (oltretutto, non si capisce cosa ci sia di costituente nella beffarda modifica dello statuto operata al solo scopo di permettere a qualcuno di partecipare forzando le regole date, secondo un meccanismo che ripete le leggi ad personam di berlusconiana memoria).

L’ossessione costituente

Ora, io credo che il Pd sia un sintomo di una patologia che investe l’intero sistema politico. Sono anni infatti che evochiamo compulsivamente processi costituenti, legislature costituenti, e così via. Per questo può essere utile contestualizzare l’ennesima dichiarazione di Letta all’interno del paradigma costituente che viene descritto esemplarmente da Roberto Esposito (nel suo Pensiero istituente) e che rovescia il significato a cui ho appena fatto riferimento.

Infatti, l’ossessione costituente non sarebbe che il tentativo di dissolvere l’identità politica – la rotta che ho evocato precedentemente – dentro una coazione a ripetere di eventi singoli e autoreferenziali. Un susseguirsi di presenti il cui carattere fondamentale è la loro singolarità, non la loro storia. I processi costituenti sono tali precisamente perché non portano a nulla al di fuori del loro farsi e disfarsi. Non c’è altro oltre questo incessante susseguirsi di segretari che sostituiscono altri segretari e che ogni volta rappresenterebbero il grado zero della storia. Esposito descrive questo movimento nella formula secondo cui l’essere viene completamente dissolto nel divenire della differenza.

Il Pd mi sembra uno degli esempi più evidenti del significato concreto di questa misteriosa formula filosofica: un partito senza sostanza che si risolve in un incessante ricorso al processo costituente. Non conta cosa sia il Pd, ma che esso sia qualcosa, che dia luogo ogni volta di nuovo a un evento. Che ogni rinnovamento si annunci come un nuovo inizio, un evento singolare.

Per anni è prevalsa la convinzione secondo cui il Pd sarebbe stato l’ultimo modello novecentesco di partito. È il caso forse di metterla ormai in discussione: il Pd non ha praticamente più nulla dei partiti, è un movimento insorgente guidato da un capo. Non è l’ultimo dei samurai, è il prototipo meglio mimetizzato della destrutturazione dei partiti. Dalle sue parti non si istituisce nulla, ma si insorge ogni volta di nuovo. Un movimento insorgente, ma senza nessuno spirito rivoluzionario (e quindi destinato inevitabilmente alla contraddizione).

Un modo impolitico di fare politica

Il Pd è in buona compagnia: quale partito politico non è oggi un “movimento insorgente guidato da un capo”, incapace di mettere in forma la società? Le conseguenze di questo modello sono però assai inquietanti. Il paradigma costituente è fondamentalmente un modo impolitico di pensare la politica. Se infatti ogni differenza diviene incapace di stare nel conflitto con le altre differenze, allora la politica non assolverà al proprio compito fondamentale, che è quello di contribuire alla “messa in forma” della società. Non conta il mare in cui navighiamo, ma il capitano a cui affidare la nave. Ossessionato da se stesso, ogni nuovo segretario ridurrà il tempo lungo della storia al tempo breve del proprio presente.

Fuor di metafora: l’ossessione costituente che risuona negli intendimenti di Letta porta da tutt’altra parte rispetto a dove dovrebbe portare. Non verso una messa in forma politica della società contemporanea, ma verso un evento del tutto impolitico in cui la nuova segreteria sarà l’ennesima eccezione che si differenzia dagli altri e ricomincia ogni volta la storia dall’inizio. Le primarie sono forse lo strumento principe di questi processi costituenti che non istituiscono nulla e riducono la vita di un partito a una dinamica essenzialmente impolitica.

È per questo che ho scritto che il Pd è un sintomo di una patologia ben più grave e che assume dei caratteri ormai dominanti. È il virus impolitico applicato alla politica: dove si discute dei nomi senza preoccuparsi delle cose. Non c’è politica senza ontologia sociale, non c’è partito senza società, non c’è capitano senza mare su cui navigare. Vi sarebbe bisogno del coraggio della politica, non del conformismo impolitico di processi costituenti che servono ad aggirare la questione fondamentale di quale società abitiamo e di quale direzione vorremmo essa prendesse.

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