Dicendo poco più di una settimana fa che la «scuola è fondamentale per la democrazia e va protetta», evitando il ricorso generalizzato alla didattica a distanza, Mario Draghi ha ribadito un concetto già chiarito molte volte: il contesto scolastico è il luogo dove è ragionevole e necessario assumersi alcuni rischi di diffusione del contagio.

Si tratta di un doloroso calcolo che mette sulla bilancia due mali – gli effetti della diffusione del virus e quelli della perdita della scuola in presenza – e conclude che i secondi sono più gravi dei primi, dunque occorre fare tutto il possibile per tenere aperte le scuole.

In un certo senso, la scuola è il primo ambito nel quale si è deciso di sperimentare una modalità di convivenza con il virus, una specie di prova generale dell’endemizzazione della malattia che imporrà un cambio di paradigma nella gestione della pandemia.

Il problema è che l’ipotesi del rischio calcolato sulla scuola esiste soltanto nelle dichiarazioni del governo, è un principio enunciato con fermezza ma clamorosamente contraddetto nei fatti da procotolli stringenti che hanno presto costretto a un ritorno semigeneralizzato alla Dad.

Il ministero dell’Istruzione non fornisce dati aggregati sulle scuole chiuse, ma dai numeri forniti in modo più o meno completo e tempestivo dalle regioni è evidente che un pezzo significativo della popolazione scolastica è di nuovo chiuso in casa.

Certo, se due casi di positività bastano a chiudere una classe delle elementari e uno soltanto l’intero comparto dell’infanzia, l’esito non era molto difficile da immaginare. I protocolli testimoniano che il governo o non ha davvero capito la logica del calcolo del rischio che esso stesso ha proposto, oppure che lo ha compreso benissimo ma non ha avuto la forza di agire di conseguenza.

Chiariamo: si tratta di decisioni delicate e complicate da comunicare perché non rispondono all’irrealistica (ma comunque desiderata) aspettativa del “rischio zero” e danno in ogni caso esiti subottimali, dove l’esito ottimale è l’assenza di una pandemia, opzione che al momento non è disponibile.

L’idea di “sicurezza”

LaPresse

La storia del Covid-19 è anche la storia di meccanismi di comportamento, abitudini sociali e bias cognitivi che sono stati faticosamente cambiati all’apparire dell’emergenza, e poi vanno altrettanto faticosamente riformati al mutare delle condizioni.

Il vaccino, che ha ridotto drasticamente la mortalità della malattia ma non fermato i contagi, è stato il cambiamento più significativo dell’intera emergenza pandemica, e i protocolli che regolano la vita sociale si adattano, per tentativi e approssimazioni, alle nuove osservazioni.

Il fatto che soltanto il 25 per cento dei bambini fra 5 e 11 anni sia al momento vaccinato dice che la strada verso una compiuto senso di “sicurezza” nei luoghi scolastici è ancora lunga, ma allo stesso tempo la scuola è dove si è deciso di rischiare di più, con valide ragioni, salvo poi rendersi conto che i meccanismi di difesa sono rimasti ancorati a una fase precedente della pandemia.

Dopo essersi affannati a spiegare che il tracciamento scrupoloso e i tamponi a tappeto sono la strada maestra per sconfiggere il virus, non è facile ora dire a genitori, insegnanti, presidi e comunità scolastiche in generale che occorre vaccinare, usare mascherine, tenere il distanziamento, aprire le finestre e quant’altro, ma È necessario accettare un certo grado di rischio per difendere gli studenti da conseguenze anche peggiori del virus. A parole è tutto chiaro, nei fatti mezza Italia è in Dad.

 

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