Già dal nome, Ultima generazione ci ricorda che il cambiamento climatico mette in discussione la sopravvivenza della specie umana e i doveri delle generazioni presenti nei confronti dei discendenti.

Come ha sottolineato Giorgia Serughetti su questo giornale, la questione climatica si deve legare dunque con quella della generazione, in un doppio senso: la possibilità che le generazioni future vivano in un mondo accettabile (e forse anche migliore) e le nostre possibilità di generare figli e avere discendenti. Il collegamento è però meno immediato e più ampio di così, in un certo senso.

Nel romanzo di P.D. James a cui Alfonso Cuarón s’ispira nel film Children of men, la voce narrante tradisce continuamente lo scoramento di fronte alla prospettiva dell’estinzione dell’umanità per infertilità generalizzata.

Anche per noi, oggi, i danni che derivano dal cambiamento climatico hanno un aspetto esistenziale evidente: è in gioco la sopravvivenza della razza umana, e con essa il senso delle nostre vite.

Gran parte delle attività che facciamo si basano sull’aspettativa che ci siano persone nel futuro: che senso avrebbe accumulare sostanze, costruire imprese, anche solo avviarsi a professioni redditizie, metter su famiglia, o addirittura scrivere, diffondere idee, se sapessimo che, a un certo punto, non ci saranno più in giro esseri come noi a raccogliere la nostra eredità, parlare di noi, ricordarci?

È ovvio e anche chi lo nega a parole lo afferma coi suoi comportamenti. Solo chi si rinchiudesse in un silenzio inspiegabile, e si appartasse totalmente dalla società, potrebbe coerentemente sostenere di disinteressarsi del futuro dei suoi simili e dell’umanità.

Se fossimo condannati all’estinzione certa e ravvicinata come specie, tutto perderebbe di senso anche nelle nostre vite individuali.

Nel film di Cuarón lo Stato distribuisce kit per agevolare il suicidio di chi non riesce più trovare senso alla sua vita. E Theo Faron, nel libro, dice che anche contemplare le opere d’arte e le biblioteche, in cui ha passato la sua vita di accademico, è meno piacevole, a pensare che saranno deserte nel futuro.

I figli degli altri

Se le cose stanno così, il problema è più grande e diverso rispetto alla denatalità italiana, o del mondo occidentale. Il problema è il futuro della nostra specie e della nostra cultura e il fatto che questa specie e questa cultura hanno valore etico, politico ed esistenziale a condizione che durino.

Non è detto che la specie umana sarà immortale, potrebbe durare meno di molte specie animali e vegetali (e questo la direbbe lunga sulle sue scarse capacità adattive).

Ma ci sembra che posticipare il momento dell’estinzione della nostra specie sia condizione del senso della nostra vita come individui.

E ci sembra così anche se non abbiamo figli, perché decidiamo di non averli. In un certo senso, sono anche i figli degli altri che contano, per tutti noi.

Sono, per esempio, anche i figli di un mondo non occidentale in cui presto ci saranno più giovani che mai, giovani che prima o poi verranno da noi, per disperazione o per intraprendenza. Il mondo non attraversa una fase di denatalità.

Forse concentrarci sulla nostra denatalità italiana o europea è uno sguardo troppo ristretto. Ma il cambiamento climatico, se non mitigato, rischia di rendere il mondo veramente inospitale per i miliardi di giovani che stanno affacciandosi alla vita, in tutti i continenti. Questa è la reale posta in gioco. Per questo siamo l’ultima generazione che può fare qualcosa.

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