Ora che la polvere si è depositata sui risultati degli ultimi voti (referendum. amministrative) ci si può cominciare a interrogare su cosa ci stia politicamente capitando. Magari sottraendosi alla troppo ovvia contabilità di chi ha vinto e chi ha perso, e cominciando piuttosto a ragionare sul fatto più banale eppure più cruciale: e cioè che quando si produce una crisi di sistema in genere non c’è mai un vincitore, e il campo degli sconfitti è comunque più affollato.

Infatti la cronaca di questi anni ci regala alcune fondamentali certezze. La prima, appunto, è che il vincitore di oggi è, già adesso, lo sconfitto di domani. Vedi la parabola non proprio gloriosa di Matteo Salvini, che appena due anni fa appariva come il dominus minaccioso e irrefrenabile dei nostri destini, acclamato da folle ansiose di farsi un selfie con lui come fossero tutti accalcati sulla passerella hollywoodiana; e ora invece sbertucciato come un’improbabile comparsa giunta al suo mesto tramonto.

O quella altrettanto discendente di Giuseppe Conte, a suo tempo portato metaforicamente in trionfo come il salvatore della nostra salute pubblica, osannato da molti ex comunisti in cerca di un nuovo compagno e perfino da qualche democristiano a corto di amici; e costretto invece a questo punto a fare i conti con numeri ballerini, giudizi irridenti e un senso quasi di disfacimento della sua, chiamiamola così, opera pubblica.

Discese agli inferi che hanno a che vedere con la qualità non propriamente churchilliana dei due sullodati signori, ma che appaiono a loro volta come fenomeni più complessi della (meritata) nemesi riservata a leader piuttosto improbabili.

Sfidare l’ovvio

E infatti, anche anche quelli di maggior talento, o di maggior fortuna, a loro volta, accennano ora a muoversi un po’ come sonnambuli. Ognuno di loro sembra pensare di potersi salvare da solo. E ognuno progetta di farlo ripetendo sé stesso, facendo eco di continuo alle parole pronunciate ieri, l’altro ieri e il giorno prima ancora.

Paghi di risultati più propizi, di radici più profonde e di prospettive meno incerte, essi sembrano tuttavia il più delle volte inclini a reiterare i loro argomenti, e le loro litanie, senza mai aggiungervi alcuna fantasia. E se dalle elezioni ottengono un viatico per il loro futuro, quel viatico non viene mai utilizzato per intraprendere percorsi, strategie, obiettivi, ripensamenti capaci di sfidare l’ovvio. Ciascuno coltiva il proprio appezzamento di terra, piccolo o grande che sia, senza mostrare di rendersi conto che la difficoltà del campo vicino, e perfino del campo avverso, può essere almeno altrettanto rovinosa.

Così, la seconda certezza è che lungo questa stessa china discendente sono, siamo, destinati a scivolare prima o poi un po’ tutti. Del resto, così dicono all’unisono, la storia e la cronaca. Infatti, nel volgere di pochi anni la crisi ha preso tutti d’infilata. I partiti storici. I cultori del plebiscito. I movimenti. Le forze populiste. Gli imitatori tardivi degli uni e degli altri. Troppe crisi per farne carico a uno solo, e troppe per non pesare massicciamente anche su quanti pensano di esserne solo lambiti.

Il trono di vetro

In altre parole, il gioco politico non è più a somma zero, laddove uno vince e l’altro perde, più o meno nella stessa misura. No, sul nostro campo di battaglia gli sconfitti sono molti più dei vincitori. E curiosamente chi vince quasi sempre si fa forte soprattutto della sconfitta altrui, poiché è da essa che trae il maggior conforto e la maggiore gloria. Quasi che ogni successo fosse in realtà una vendetta, e ogni nemico abbattuto diventasse il provvisorio arco di trionfo, o almeno il sospiro di sollievo, di chi più che altro può vantare di aver limitato i danni.

Ora però, se tutto questo è vero, ne dovrebbero discendere alcune conseguenze. E cioè che occorre a questo punto prendere atto che, per dirla con Shakespeare, il trono di vetro su cui poggia il potere del sovrano è particolarmente fragile, e che se quel vetro non verrà ispessito e irrobustito ogni sovrano, anche il più capace, finirà per sprofondarvi. Argomento che tuttavia non sembra appassionare più di tanto né i sovrani che sono stati appena deposti, né quelli che si illudono ora di trovarsi a un passo dall’incoronazione.

E qui, dove appunto rischia di cascare il sovrano che verrà (chiunque egli o ella sia), casca anche l’asino del nostro collettivo ragionamento pubblico. Quello che sto cercando di dire è che quando lo spettro della crisi è così ampio, e le possibilità di riuscita a lungo andare così fragili, e i destini dei leader così precariamente appesi a fili esilissimi, quando avviene tutto questo, l’istinto di sopravvivenza dei leader politici – tutti – dovrebbe essere quello di ricavare dalla lettura della realtà e non più dalla fantasia delle illusioni la chiave per uscire dalla difficoltà.

Il rapporto con la realtà

In altre parole dovremmo cercare di offrire a noi stessi un racconto più autentico dello stato dell’arte. Riconoscere che il malumore dell’opinione pubblica è così largo e diffuso che non si accontenta più di un capro espiatorio. Liberarsi dall’equivoco che basti indicare un colpevole per volgere il sentimento critico in una direzione più vantaggiosa. Evitare di indossare quelle grottesche maschere di auto compiacimento con cui, a turno, tutti i leader di questa stagione si sono peritati di pensare che bastasse recitare le formule magiche dell’illusionismo per trarne un vantaggio alla prima occasione.

Così, il tema vero diventa quello del nostro rapporto con la realtà. Di quanto siamo capaci di riconoscerla scrutando dentro la trama della sua quotidianità e imparando a leggere con cura i segnali che ci trasmette. Di quanto abbiamo voglia di guardarla negli occhi, quella realtà, per brutta che ci possa apparire. Di quanto accettiamo di essere impietosi con noi stessi, una volta che si sia capito che l’eccesso di indulgenza ha portato tutti – chi più chi meno, chi prima chi poi – in un girone d’inferno dantesco da cui non riusciamo a riguadagnare quel purgatorio che la politica d’una volta s’era guadagnata quantomeno con le sue preghiere.

Non si tratta di fustigarsi col gatto a nove code e neppure di indossare il saio del penitente. Si vorrebbe semplicemente che la politica e i suoi protagonisti imparassero a rispecchiarsi nella realtà in cui sono immersi. E riconoscendola finalmente per quello che è – una crisi di sistema, appunto – pian piano provassero a venirne fuori.

Da un simile esercizio, faticoso eppure liberatorio, potrebbero scaturire le più diverse soluzioni e combinazioni. Ne potrebbe sortire quello che De Mita chiamava il «riordino» delle istituzioni: una rivisitazione delle ragioni dello stato. O magari nuove e più fantasiose combinazioni tra i partiti. O ancora, una progressiva riedificazione di culture politiche che sono state fin troppo trascurate. O infine, anche solo un mutamento dello stato d’animo collettivo, dei mille modi in cui ciascuno di noi guarda alla politica.

Piacerebbe vedere un leader dei nostri giorni, uno solo, chiunque sia, che si ritaglia qualche settimana di tempo per mettere a fuoco una proposta, offrendo un cambiamento di sé come condizione di un cambiamento più largo. E che per qualche settimana si concede il privilegio del silenzio e della riflessione.

Un leader, uno solo, chiunque sia, che per qualche tempo indugia a cercare parole nuove e prende atto che le parole che ha ripetuto e ripetuto, infinite volte, in tutte queste campagne forse non bastano a risalire la china – neppure per chi lungo quella china magari è risalito qua e là di un frammento di punto. Un leader, uno solo, chiunque sia, che finalmente annuncia di non accontentarsi più dell’effimero di una dichiarazione al giorno o di un profluvio di messaggi social fatti apposta per venire dimenticati nel volgere di poche ore. Servirebbe insomma una parola nuova che scaturisse da un silenzio antico.

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