Pandemia,  guerra, crisi energetica e climatica. Le sfide della nostra epoca impattano sempre di più sulle disuguaglianze e una parziale descrizione dei trend e dell’impatto di queste crisi sui bambini e gli adolescenti provano a darla i dati sulle povertà e sul rischio di esclusione sociale.

Numeri impressionanti a livello globale, come i 100 milioni di bambini nel mondo che queste crisi hanno fatto scivolare nella povertà. Numeri allarmanti come quelli usciti un po’ in sordina da Eurostat sulla povertà minorile in Europa e in Italia.

I numeri

Nel 2021 raggiungiamo il 29,7 per cento nel tasso di povertà ed esclusione sociale minorile in Italia, un numero da brividi e ben al di sopra sia della media Ue (23,8 per cento) che delle percentuali di altri grandi paesi fondatori come la Francia e la Germania, rispettivamente al 23,5 per cento e al 22,6 per cento.

L’Italia va peggio anche di paesi come la Polonia o l’Ungheria, per non parlare dei paesi del nord Europa o di realtà dinamiche come il Portogallo, l’Irlanda e la Croazia che negli ultimi anni hanno visto un calo drastico negli indicatori sulla povertà minorile.

In alcune regioni del sud si registrano le situazioni più drammatiche di tutta Europa. È il caso per esempio della Sicilia, dove il tasso di abbandono scolastico  sfiora il 20 per cento e quello di iscrizione ai servizi educativi non raggiunge il 10 per cento.

Non ci sono traguardi possibili nell’agenda 2030, nella ripresa inclusiva, nella transizione ecologia, se non diminuiamo drasticamente la povertà minorile.

Non c’è sfida ambientale a cui possiamo rispondere se la prevalenza di disturbi mentali tra gli under 18 supera il 20 per cento  (siamo al 20,4 per cento, cioè 1,9 milioni di minorenni che soffrono un qualche disturbo di salute mentale) o se l’underachievement – il basso rendimento scolastico – è tale per cui quasi il 50 per cento degli studenti italiani delle scuole superiori non sono in grado di completare esercizi base di italiano e matematica, rispetto a una media Ue del 21-22 per cento.

Cosa si può fare

Sono numeri che non raccontano le storie di ogni bambino. Ma ci dicono che un bambino su tre vive in case senza riscaldamento o senza mangiare quasi mai carne, pesce o senza accesso a internet. Bambini  che non vanno mai in vacanza, non fanno sport, di rado hanno contatti con amici e parenti.

Ci dicono di un numero sempre più alto di ragazze o di adolescenti immigrati che si rinchiudono in camera attaccati al cellulare, abbandonando la scuola in preda a depressione o ansia.  

Ma grazie a quei numeri - e a tanti altri che l’Unicef ha pubblicato nella ricerca sulla povertà minorile e l’esclusione sociale in Italia che fa parte della sperimentazione della Garanzia europea per l’Infanzia - possiamo favorire un’azione politica adeguata a rispondere con urgenza alle sfide che abbiamo davanti.

Sappiamo per esempio che se oggi nasci al Sud hai praticamente il 50 per cento delle possibilità di vivere in una famiglia a rischio povertà. Ma questa dimensione va connessa con altre come la presenza di una disabilità, la residenza in una grande città o in un’area remota, l’appartenenza a una famiglia monogenitoriale oppure numerosa, il background migratorio.

Emergono dalla ricerca Unicef dimensioni trasversali e categorie che vanno lette con attenzione perché non esiste una risposta uniforme né tantomeno slegata dal livello locale di intervento.  

Per questo le raccomandazioni che Unicef inserisce nella ricerca riguardano anche la governance, oltre che le risorse e la trasversalità degli interventi necessari: sociale, istruzione, sanità devo integrarsi sempre di più se vogliamo creare risposte efficaci.

In questa ultima legislatura - sulla scia delle sperimentazioni avviate tra il 2014 e il 2018 dal governo Renzi a livello nazionale e dall’Emilia-Romagna e dalla Toscana a livello regionale – sono state messe in campo misure importanti per il contrasto alla povertà minorile, come il reddito di cittadinanza e l’assegno unico universale.

Tuttavia la ricerca di Unicef dimostra come queste misure non basteranno a modificare il fatto che dal 2009 la fascia di età più colpita dalla povertà è quella che va da zero a 18 anni. 

A confronto con i principali paesi europei in Italia continuiamo infatti a investire meno su infanzia e adolescenza. E quel poco che spendiamo va  soprattutto in trasferimenti monetari, cioè in soldi, non in servizi.

Ora le misure che già esistono vanno accompagnate da un investimento straordinario in servizi, come ci chiede l’Europa con la Child Guarantee, la garanzia europea per l’infanzia. 

A partire dalla scuola e dai servizi sociali locali, dagli asili nido, dalle neuropsichiatrie infantili. Per questo ci vogliono più risorse sulla protezione sociale, sul finanziamento dei servizi, sulla governance a livello locale.

Il contrasto alla povertà minorile deve essere una priorità o minerà il raggiungimento di qualsiasi altro obiettivo.

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