Cosa determina la stabilità di una democrazia liberale? Quali elementi possono farla funzionare meglio? Perchè questo sistema politico riesce a radicarsi e a progredire in certi paesi, mentre in altri la sua affermazione risulta molto complicata e forse impossibile?

Sono domande alle quali la scienza politica cerca di rispondere da quasi un secolo, ossia da quando, nei terribili anni Venti e Trenta del Novecento, numerosi sistemi liberaldemocratici in apparenza solidi si sono dimostrati consistenti come castelli di carte.

La salute delle democrazie liberali è legata alla qualità delle loro Costituzioni, all’equilibrio nel disegno della mappa dei poteri e alla protezione giuridica riconosciuta al cittadino. Molte Costituzioni scritte dopo la metà degli anni Quaranta incorporano le lezioni tratte dalle catastrofi del primo Novecento.

Tuttavia, i necessari aspetti costituzionali possono non essere sufficienti a garantire la tenuta del sistema, in quanto una Costituzione deve poi tradursi in forza culturale, vivente nei valori e nelle azioni concretamente presenti nella società. «La democrazia si fonda soprattutto sulle credenze radicate nel cuore degli uomini» sosteneva giustamente Maurice Duverger.

L’analisi delle culture politiche

Dagli anni Cinquanta gli studiosi hanno cominciato ad analizzare anche la cultura politica dei cittadini nei diversi paesi. La prima grande ricerca internazionale comparata sulle culture politiche dei cittadini è stata svolta da due politologi americani, Gabriel Almond e Sidney Verba (The Civic Culture, Princeton University Press, 1963), attraverso questionari distribuiti a campioni nazionali di cittadini appartenenti a cinque paesi democratici.

Dai risultati della loro ricerca emerse come la stabilità dei sistemi democratici fosse favorite dalla presenza di una cultura civica, diffusa soprattutto nei paesi anglosassoni. Da questo pionieristico studio sono scaturite numerose riflessioni ed analisi aventi quale oggetto le culture politiche.

Con il passare del tempo e recuperando la lezione di Max Weber, gli studiosi hanno cominciato a concepire la ricerca sulle culture politiche come un’attività ermeneutica in cui le azioni umane sono comprese e interpretate in relazione a un determinato contesto.

Questa impostazione comporta il riconoscimento del ruolo attivo del ricercatore e dell’intermediazione culturale nella ricostruzione dei contesti oggetto di studio oltre alla necessità di calare questi contesti nel tempo e nello spazio.

Pochi anni dopo la ricerca di Almond e Verba, a metà degli anni Sessanta, in Italia sono state avviate le analisi dell’Istituto Cattaneo di Bologna sulla partecipazione politica, che si concentrano sulla ricostruzione di contesti specifici utilizzando diversi metodi di ricerca: studio di dati elettorali aggregati a livello comunale o provinciale, dell’organizzazione di partiti, sindacati, associazioni, e interviste in profondità ai militanti.

Nel più vasto contesto europeo Stein Rokkan propone di interpretare i conflitti politici contemporanei ricostruendo l’importanza della loro strutturazione nel tempo e nello spazio, mentre negli Stati Uniti si è affermato l’approccio di Daniel J. Elazar orientato allo studio delle subculture politiche dei vari Stati dell’Unione. La concomitanza di tali esperienze di ricerca non è casuale

È lo stesso clima di effervescenza sociale dei secondi anni Sessanta che induce a restituire alla politica tutta la sua complessità.

Gianfranco Pasquino (La complessità della politica, Laterza, 1985) ha parlato di «una rivoluzione che potremmo definire weberiana, se teniamo conto degli apporti che Max Weber ha dato all’analisi dei sistemi politici nella loro globalità, alla prospettiva comparata, all’impostazione storica e all’importanza dei fattori culturali».

Numerosi filoni interdisciplinari

Da questa stagione sono nati numerosi filoni di ricerca, in diverse discipline, che hanno messo al centro l’attenzione verso contesti territoriali definiti a livello subnazionale. Per rimanere all’Italia, possiamo ricordare, per esempio, che in sociologia Arnaldo Bagnasco e Carlo Trigilia hanno studiato lo sviluppo socio-economico sottolineando l’importanza delle “subculture politiche territoriali” (nell’Italia centrale e nel Nordest) e mettendo in evidenza il ruolo dei distretti di piccola e media impresa.

Anche la scienza politica si è occupata a lungo delle subculture: all’Università di Firenze Mario Caciagli e Carlo Baccetti hanno avviato importanti ricerche riguardanti contesti specifici della Toscana (come il Medio Valdarno inferiore) in cui, attraverso strutture associative, luoghi della memoria, miti, riti e pratiche i partiti della sinistra (socialista prima, comunista poi) hanno intessuto della loro presenza le vicende della società locale dalla fine dell’Ottocento agli anni Ottanta del Novecento.

All’Università di Padova attorno a studiosi quali Percy Allum, Ilvo Diamanti, Gianni Riccamboni e Patrizia Messina sono nate ricerche che ricostruivano le peculiarità della società locale, caratterizzata soprattutto dal ruolo storico svolto al suo interno dalla Chiesa. Questi filoni di ricerca, oltre a intrecciare in modo indissolubile scienza politica e sociologia, dialogano costantemente con la storia, l’economia, la geografia, l’antropologia.

Come ci ricorda il testo di Oscar Mazzoleni Territorio e democrazia. Crisi e attualità di un legame  (Mondadori, 2022) gli approcci territoriali all’analisi politica necessitano sempre di pratiche interdisciplinari, soprattutto se a una visione geometricamente astratta dello spazio scegliamo di preferire «una visione relazionale, ispirata al relativismo einsteiniano, che intreccia indissolubilmente spazio, tempo e soggetto».

L’insorgenza leghista

Nello studio della politica italiana l’analisi territoriale riveste un’importanza cruciale, sia a causa delle profonde differenze fra i diversi contesti locali che compongono il “mosaico” del nostro Paese, sia per la nascita in uno di tali contesti (l’Italia nordorientale) del fenomeno leghista, il quale ha innescato, all’inizio degli anni Novanta, la crisi del sistema partitico del primo periodo repubblicano.

A lungo sottovalutata, quando non travisata, l’insorgenza leghista ha trovato proprio in uno studioso della “scuola padovana”, quale Ilvo Diamanti, il suo interprete più profondo e il suo libro La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico (Donzelli, 1993) resta un esempio di come si possa fare ricerca aderendo a tutte le pieghe del territorio.

La comparsa di un mutamento che proviene da un contesto sub-nazionale, come fu, ad esempio l’irruzione sulla ribalta politica della Lega, mette in discussione due tendenze ancora persistenti nella scienza politica, malgrado la “rivoluzione weberiana” di fine anni Sessanta.

Da un lato, mette a dura prova quanto è stato definito da Ulrich Beck “nazionalismo metodologico”, ossia il punto di vista che da per scontato il perimetro nazionale, postulando la “naturale” corrispondenza fra società e Stato e svalutando quanto accade in determinati contesti locali.

Dall’altro lato, contrasta anche con il prodotto della crisi delle grandi narrazioni novecentesche, ossia con quanto sempre Diamanti (Gramsci, Manzoni e mia suocera, il Mulino, 2012) ha definito come «il presunto declino delle appartenenze», cioè la convinzione che i processi di digitalizzazione e personalizzazione della politica avvengano in uno spazio “vuoto”, in cui la sedimentazione delle culture politiche o le appartenenze territoriali svolgerebbero un ruolo trascurabile. In realtà, i contesti locali contano molto, per le persistenze e i mutamenti che li attraversano.

La storia non è mai finita e il suo scorrere riserva sempre notevoli sorprese. Per cercare di comprendere gli accadimenti non bisogna smettere di chiedersi perché alcuni fenomeni accadono in un certo modo in un certo posto e non altrove. Bisogna non perdere il contatto con il territorio.

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