Le “grandi dimissioni”, titolavano a settembre alcuni quotidiani annunciando il dato di un milione e ottantamila persone che, nei primi sei mesi del 2022, avevano deciso di lasciare il posto di lavoro. Un dato in crescita, rispetto al 2021, del 31,73 per cento. È stato coniato anche un nomignolo per quei giovani che lasciano il posto in cerca di condizioni esistenziali migliori: Generazione Yolo (you live only once) la generazione del “si vive una volta sola”.

Prima di lanciarsi capitomboli definitori è utile cercare di capire qual è l’identità del lavoro oggi e il ruolo che assume per le persone. Avere un’occupazione, per la stragrande maggioranza delle persone, vuol dire sia forza economica (per il 93 per cento è, ovviamente, una fonte di reddito), sia libertà (per il 90 per cento è uno strumento per affermare la propria indipendenza personale).

Questa accoppiata di reddito e indipendenza mostra quanto il lavora oggi si sia parzialmente disancorato dalla mera dimensione di mezzo utilitaristico per l’esistenza, marcando, invece, il ruolo di strumento per trovare la propria sovranità e identità. Nella contemporaneità l’immaginario del lavoro si è arricchito di tratti aspirazionali.

Crescita personale e realizzazione

Per l’88 per cento avere un’occupazione è un’opportunità di crescita personale, un modo per realizzarsi e sentirsi soddisfatto della propria esistenza. Essa, in questa ottica, è sempre più una costruzione storica e immaginaria. Un tratto che amplia la portata del lavoro come strumento di appartenenza e identità del sé.

Il tema dell’appagamento, pertanto, è sempre più centrale ed entra in gioco sia nella fase della scelta del posto in cui lavorare, sia nell’esperienza quotidiana all’interno delle imprese. Certo, ieri come oggi, i morsi dei bisogni di sussistenza costringono le persone alla mediazione, a venire a patti con sé stessi, ma sono accettazioni temporanee.

La spinta, nella società contemporanea, è rivolta a esaudire i propri sogni e a riconquistare il proprio tempo. La forbice tra il lavoro e la visione di vita delle persone è allargata anche dall’ampliarsi dei fattori di alienazione tra produttore e prodotto che l’èra della tecnologia e della digitalizzazione porta con sé.

Mentre il lavoro si automatizza sempre più, le possibilità di riappropriazione del produttore del proprio lavoro diminuiscono. Ciò pone in primo piano il tema del “senso” del lavoro per l’individuo. Per l’83 per cento degli italiani il lavoro è sia uno strumento per costruirsi una posizione sociale, sia uno spazio esistenziale e relazionale, in cui si possono sviluppare e stringere nuove amicizie (77 per cento).

Dare un senso

Non solo, oggi entrano in gioco, in modo prepotente, altri fattori, legati al senso etico e all’impegno sulla sostenibilità che le imprese devono mettere in campo (per l’84 per cento delle persone è importante che il proprio lavoro non danneggi l’ambiente).

Gli elementi costitutivi dell’immaginario del lavoro contemporaneo, quindi, non sono solo lo stipendio e la sicurezza di avere una entrata economica (63 per cento), ma sono l’avere un futuro certo (42 per cento) e la possibilità di fare carriera (24 per cento); sono buoni rapporti con i colleghi (21 per cento) e con i capi e i superiori (19 per cento). Sono la presenza di pochi rischi nell’azienda (12 per cento).

Per stare bene in una impresa ci vuole, da parte dell’azienda e dei suoi vertici, la capacità di dare un senso al lavoro, di creare un forte spirito di appartenenza e condivisione dei valori aziendali (17 per cento). Stabilità, futuro, certezza, empatia, condivisione, partecipazione, relazione, equilibrio e rifiuto del modello gerarchico autoritario, sono le tematiche che sfolgorano nella costellazione dell’immaginario del lavoro di oggi.

Il senso dell’avere una occupazione, in un’epoca di crescenti incertezze, è sempre più spostato verso la solidità, le garanzie, l’appagamento personale, lo sviluppo individuale e la connessione tra la persona e l’attività. Una proiezione che si allontana da quella dimensione del lavoratore-consumatore che si è insediata negli ultimi decenni; che cozza con la precarizzazione lavorativa ed esistenziale che la flessibilità ha imposto; che rigetta la dimensione gerarchico-autoritaria che ancora aleggia in molte aziende piccole e medie; che soffre per i tratti alienati in cui, per dirla con André Gorz, l’individuo sociale non produce niente di ciò che consuma e non consuma niente di ciò che produce.

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