In un brillante editoriale sul Corriere della Sera Paolo Mieli ha criticato le pratiche singolari e i rituali opachi che circondano l’elezione del presidente della repubblica, rarissima carica per la quale non solo non ci si può candidare, ma si ottiene soltanto esibendo, in silenzio, un ostinato e artefatto disinteresse.

Mieli sostiene la sua critica suggerendo un parallelo con il “metodo Ambrogio”, cioè la modalità con cui nel 374 il governatore Ambrogio fu eletto vescovo di Milano, lui che al tempo non era nemmeno battezzato.

Nel giorno della morte del vescovo, Ambrogio, che si era distinto fino a quel momento per la sua abilità politica nel gestire l’aspro scontro fra ariani e cattolici, si trovò in una chiesa piena di fedeli.

Secondo il noto racconto di un biografo, fu un bambino a gridare «Ambrogio vescovo!», esclamazione che scatenò l’immediata approvazione degli astanti. Ambrogio provò a sottrarsi all’elezione a furor di popolo fuggendo dalla città, ma dopo un tentativo di depistaggio andato male e altre peripezie finì per essere “riacciuffato”, rassegnandosi ad accettare il ruolo che gli era stato assegnato dalla voce ispirata di un bambino.

Il fatto che siamo qui a discutere dell’episodio a 1.647 anni di distanza è la prova che la scelta fu in qualche modo azzeccata. Nell’elezione del capo dello stato, avverte Mieli, si rischia di «imboccare la via di sant’Ambrogio».

L’ex direttore del Corriere spiega il rito quirinalizio attraverso quello ambrosiano soprattutto in relazione alla studiata ritrosia che i non-candidati devono mostrare per non “bruciarsi”, un gioco delle parti che è diventato un fatto di costume o malcostume politico del nostro paese, faccenda troppo simile alla rocambolesca nomina episcopale altomedievale per essere degna di una democrazia liberale moderna.

L’analogia proposta da Mieli è colta e illuminante, ma non regge fino in fondo, perché la storia del vescovo Ambrogio nominato da un bambino non è soltanto una faccenda che riguarda l’ispirazione divina.

Certo, in termini evangelici il bambino rappresenta quella semplicità d’animo che afferra di getto una verità che invece è preclusa ai sapienti. Ma quando il bambino esclama «Ambrogio vescovo!» nella chiesa stracolma dà voce a un sentimento, a un giudizio, che è già diffuso nel popolo alla ricerca di una guida. Il fanciullo verbalizza qualcosa che, più o meno confusamente, è nell’animo delle persone che gli stanno accanto.

Queste si limitano a riconoscere – a ratificare, in termini parlamentaristici – un suggerimento saggio offerto da quello che in quel momento appare come il meno attrezzato dei portavoce.

Prendendo sul serio e approfondendo la pista di Mieli si può dire che il grido del bambino non “elegge” il nuovo vescovo, ma più semplicemente fa emergere una valutazione che era già nel cuore degli adulti, cioè che in quel momento Ambrogio era la persona più adatta, per capacità e autorevolezza riconosciuta in modo sostanzialmente unanime, a ricoprire quella carica.

Non si tratta di una netta opposizione rispetto a un criterio che con un aggettivo terribile si potrebbe definire “meritocratico”: l’esclamazione dà forma a una valutazione – una valutazione di natura anche politica – che attendeva soltanto di essere pronunciata ad alta voce.

Manovre di potere

Tutto questo si capisce soltanto nel contesto di una mentalità classica e medievale in cui la voce di Dio e quella del popolo si tengono per mano. Il discorso, però, si può secolarizzare e applicare anche all’elezione del presidente della repubblica, che a conti fatti non somiglia affatto alla dinamica del riconoscimento popolare che emerge dalla vicenda di Ambrogio.

L’elezione del Quirinale è un curioso incrocio fra una seduta spiritica e un’asta del Fantacalcio, non ci sono candidati e gli elettori non rispondono dei loro voti, caratteristiche che hanno reso la circostanza il teatro perfetto per vendette politiche e manovre di potere così complicate che alla fine gli stessi attori coinvolti non sembrano capirci più niente.

In questa danza, la volontà degli elettori scompare, e con questa scompare anche l’incentivo ad affidare la massima carica dello stato alla persona più capace in circolazione.

L’esclamazione pubblica del bambino dà a Milano il vescovo che il popolo riteneva più adatto, mentre la votazione segretissima del Quirinale incoraggia compromessi a porte chiuse e accordi più o meno nobili fra fazioni, pratiche che finiscono per c’entrare poco con l’interesse del paese.

Mieli fa bene a criticare il sistema con cui si elegge il presidente della repubblica, ma l’accostamento con il “metodo Ambrogio” è fuori fuoco. Esperimento mentale: cosa direbbe quel bambino se dovesse esprimersi oggi in parlamento? «Draghi presidente!», probabilmente. Non sarebbe un giudizio fazioso, ma il semplice riconoscimento di una valutazione ampiamente condivisa.

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