L’obiettivo del Green Deal è leadership della rivoluzione verde nel mondo. Una leadership implica però che qualche azienda europea diventi l’equivalente di Google per l’ambiente. L’Italia potrebbe giocare un ruolo con Enel: tra le 50 maggiori aziende al mondo del settore “Clean Energy”, Enel è seconda per capitalizzazione dopo l’americana NextEra.

Dal 2014, anno di nomina dell’attuale amministratore delegato Francesco Starace, il valore di Enel è aumentato da 40 a 69 miliardi, una performance superiore dell’8 per cento all’indice mondiale delle utility e del 32 di quello europeo, spiegata da una crescita media annua dell’utile per azione del 9 per cento, a fronte di ricavi stagnanti.

Una crescita degli utili spiegata principalmente dal crollo del costo della generazione delle rinnovabili, su cui Enel ha puntato prima degli altri. Oltre alla digitalizzazione delle reti che ha reso più efficiente la distribuzione. C’è però ora il rischio che le ragioni di una strategia fin qui di successo esauriscano il loro effetto.

Due dati per capirlo. Il rapporto prezzo/utili di Enel è rimasto pressoché costante dal 2014 intorno al 12 stimato per il 2022. Significa che il “valore” attribuito dal mercato agli utili non è cambiato in otto anni, ovvero che il mercato non si aspetta quell’accelerazione di utili e redditività che invece ci si aspetterebbe da una leader della rivoluzione ambientale.

Il multiplo al quale viene valutata Enel è inferiore anche rispetto a un campione di grandi utility paragonabili come NextEra, Verbund, Rwe, National Grid, Orsted, e Iberdrola che hanno un rapporto prezzo/utili medio di quasi 23. Se per esempio Enel passasse da 12 a 23, significherebbero 57 miliardi di capitalizzazione in più. Il multiplo sale ancora se si passa a società più piccole come Falck Renewables o la francese Neoen (in media 57).

Il secondo dato riguarda i margini. Per il 2022, si stima un risultato operativo per Enel di circa il 16 per cento dei ricavi, rispetto al 27 medio del campione precedente di grandi utility. L’analisi del margine e del rapporto prezzo/utili suggerisce cinque fattori che rischiano di frustrare la possibilità che Enel diventi il vero leader mondiale della rivoluzione verde.

I cinque fattori di rischio

LaPresse

C’è il “rischio Italia” del debito pubblico che indirettamente grava sui 56 miliardi di indebitamento dell’Enel, oltre allo Stato azionista di controllo. Il peso ancora dominante per i suoi margini (70 per cento dell’Ebitda) di due paesi a bassa crescita come Italia e Spagna.

L’operare in un settore in larga parte regolamentato e quindi soggetto al rischio che in futuro possa essere trasferita al consumatore una quota maggiore dei minori costi della generazione e dei guadagni di efficienza della rete.

I ricavi che dipendono dalla vendita di un bene indispensabile come l’energia elettrica e dunque espone il suo conto economico alle pressioni sociali in caso di aumenti di prezzo, come sta succedendo con la crisi energetica attuale. E l’eredità della sua origine di monopolista, che la grava di costi di sistema (come l’onere della ridondanza per gestire la domanda di picco o l’obbligo di fornitura al trasporto ferroviario) e di pressioni dalla politica (gestione dell’occupazione, localizzazione dei siti produttivi, o l’avventura in OpenFiber, anche se poi è riuscita ad uscirne inaspettatamente in utile).

I limiti

Enel non può ricercare crescita e redditività con operazioni di venture capital, o capital growth di società promettenti come sta facendo con EnelX, perché necessariamente troppo piccole per poter aumentare in modo significativo la valorizzazione di un gruppo da 69 miliardi. E neppure con le joint venture che creano sempre problemi di governance, né hanno mai valorizzato le società.

Un cambio di strategia è però possibile e non richiederebbe risorse finanziarie aggiuntive, precluse da un indebitamento (3 volte l’ebitda) già ai massimi del settore; dalla necessità di mantenere un dividendo che assorbe un quarto del cash flow operativo; e dallo Stato azionista di controllo che si opporrebbe a qualsiasi operazione sul capitale per non diluire la propria quota.

Per prima cosa Enel dovrebbe scindere distribuzione, reti locali e vendita retail, in una società quotata (o in più società nazionali), così che ogni azionista di Enel deterrebbe un titolo dell’azienda originale che mantiene la generazione, chiamiamola “EGrowth”, e uno nell’azienda di vendita e distribuzione, chiamiamola “EDistribution”.

Gran parte del debito e i dipendenti in eccesso verrebbero allocati a EDistribution che li sopporta in misura maggiore per via di un’attività caratterizzata da margini e flussi di cassa stabili.

Lo Stato avrebbe l’interesse a scambiare la partecipazione in EGrowth con un aumento della quota in EDistribution, l’attività socialmente e politicamente sensibile (tutti gli italiani e le imprese pagano la bolletta) e dai dividendi più elevati, ma in questo modo liberando EGrowth dal “rischio” Italia.

Fin qui sarebbe l’esatta replica dell’operazione di scorporo della rete di Tim che il suo nuovo vertice (o Kkr), sta predisponendo. Come identico è l’obiettivo di aumentare la valorizzazione della società.

Le somiglianze però finiscono qui perché EGrowth, sgravata dal debito e dipendenti in eccesso, e liberata dal controllo dello Stato, dalle attività regolate in mercati a bassa crescita, e da quelle socialmente e politicamente sensibili, potrebbe avviare una strategia di crescita tramite importanti acquisizioni in società produttrici di tecnologia, impianti e componenti, integrandosi a monte nella parte a più alto valore aggiunto e crescita, dopo aver dismesso la parte a valle.  

Le opportunità

In virtù del suo posizionamento nel mercato elettrico mondiale, Enel avrebbe tutte le conoscenze, competenze e professionalità per individuare le società con le soluzioni e capacità tecnologiche più promettenti e avanzate.

Così facendo, se da primario produttore di energie rinnovabili, lo diventasse anche nel campo di chi sviluppa e produce le tecnologie, componenti e impianti necessari a generazione, smart grid e distribuzione, ne incorporerebbe anche i maggiori multipli a cui il mercato valuta queste attività.

A mero titolo esemplificativo, produttori americani di pannelli solari come First Solar o SunPower sono valutati con rapporto prezzo/utili di 42; 45 la danese Vestas, leader nelle pale eoliche; e 48 la danese Alfen nelle smart grid.

Per Enel significherebbe acquisire attività che il mercato valuta il triplo di quelle scisse in EDistribution, oltre ad aumentare le esternalità per l’Italia in fatto di ricerca e sviluppo, per quella che potrebbe essere la strategia per diventare la Google dell’ambiente.

Senza più il vincolo di non dover diluire lo Stato, e grazie all’aumento dei multipli, le operazioni sarebbero finanziate prevalentemente con offerte di azioni, evitando l’uso eccessivo della leva.

L’ostacolo principale però è la politica che con un riflesso incondizionato griderebbe subito allo spezzatino e alla privatizzazione selvaggia. E se anche si riuscisse a far passare la similitudine allo scorporo della rete di Tim, che invece trova un ampio consenso politico, c’è il problema che il mandato di Starace scade nell’aprile 2023: e con un rinnovo in vista, per di più quando saremo in campagna elettorale o con un nuovo governo, è difficile immaginare un qualunque cambiamento. L’Italia è anche questo.

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