Recep Tayyip Erdogan, mediatore nella crisi del grano ucraino, e il suo partito governano la Turchia da ormai vent’anni e hanno dato vita ad un percorso di cambiamento per il paese che ne ha modificato profondamente non solo le istituzioni – ad esempio introducendo una controversa forma di presidenzialismo – ma anche le “frecce del kemalismo” (repubblicanesimo, nazionalismo, secolarismo, statalismo, populismo, riformismo), ossia i pilastri dottrinali su cui l’ordinamento è stato costruito alla fondazione della Repubblica.

L’erdoganismo utilizza infatti questi principi in funzione inversa, trasformando la società turca e accentuandone le linee di frattura interne. Se il kemalismo instaura un secolarismo militante come strumento di modernizzazione della popolazione, ad esempio, l’erdoganismo attribuisce alla devozione religiosa un ruolo centrale.

Populismo e religione

Rilevante è anche l’uso della narrativa populista. Dapprima, l’Akp utilizza la retorica dello scontro contro una élite autoritaria, nazionalista ed escludente per costruirsi un’immagine di forza europeista e democratizzante, apprezzata dall’Europa; nel secondo decennio di governo, invece, lo scontro è con un non meglio identificato “alto intelletto”, una alleanza internazionale che complotterebbe contro il benessere della Turchia e il consolidamento del suo ruolo di potenza regionale.

In questa seconda fase, i riferimenti all’appartenenza religiosa divengono sempre più espliciti e ricorrenti e si rende evidente come la riforma dei principi del kemalismo non sia volta ad accrescere la democrazia interna quanto a mantenere al potere un soggetto ad egemonia autoritaria, al massimo in coalizione con forze subalterne.

Nel raggiungimento di questo obiettivo, Erdogan può contare su una consolidata cultura politica in cui i più ampi strati della popolazione cercano nel leader una guida che incarni lo spirito della nazione e la protegga come un buon padre.

È così che le vittime del fallito golpe del 15 luglio 2016 divengono martiri della patria, gli si intitola uno dei ponti sul Bosforo e a loro si fa riferimento nei comizi per ricordare da che parte si è schierato il popolo quando il governo legittimamente eletto è stato messo in pericolo.

Di fatto, il fallito golpe rappresenta il momento di maggiore consolidamento dell’erdoganismo come compiuta dottrina politica, in cui il leader – che non tollera ombre neppure dai suoi più diretti collaboratori (si veda la progressiva epurazione dell’ex primo ministro e autorevole ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu ormai leader di una formazione politica autonoma) – è l’architrave solipsistico dell’intero sistema.

Neo-patrimonialismo

In this handout photo provided by the Turkish Presidency, Turkish President Recep Tayyip Erdogan, left, shakes hands with Russian President Vladimir Putin during their meeting, in Tehran, Iran, Tuesday, July 19, 2022. (Turkish Presidency via AP)

Se il populismo diviene la strategia di comunicazione e l’islamismo moderato l’ideologia politica portante, in ambito economico l’erdoganismo sostiene un neo-patrimonialismo che tuttavia mostra chiari segni di fallimento nell’attuale crisi economica, che rende il paese vittima della spirale inflazionistica e sempre più dipendente dagli investimenti esteri.

In politica estera, infine, l’erdoganismo ambisce a fare della Turchia un battitore libero, capace di giocare e vincere su più tavoli. Così, l’interesse per l’adesione all’Unione europea si riduce incessantemente e la partecipazione alla Nato, da cui un tempo erano derivati vantaggi nella tutela contro il gigante sovietico, diviene uno strumento per evidenziare l’indipendenza diplomatica e chiedere importanti contropartite in cambio della propria collaborazione.

Il più recente caso è quello del veto all’ingresso di Finlandia e Svezia, rimosso solo in cambio di una promessa a cessare qualsiasi forma di supporto alle formazioni terroristiche legate al secessionismo curdo.

Non ci sono dubbi che il Pkk sia una organizzazione terroristica che ha mietuto vittime fra la popolazione civile del paese e che per questo è riconosciuta come tale anche dall’Ue; più controversa è però la configurazione dello Ypg, formazione terrorista per la Turchia, che però ha goduto di un importante supporto internazionale nelle fasi più acute dello scontro con l’Isis durante il conflitto siriano.

La questione curda

La gestione della questione curda merita una breve digressione, giacché contribuisce a spiegare il polimorfismo dell’erdoganismo. In un primo momento, infatti, Erdoğan è riuscito a mostrarsi come possibile risolutore di questa annosa questione, sostenendo, nelle fasi della c.d. apertura ai curdi, (limitati) riconoscimenti dei diritti culturali di questa minoranza e ottenendone in cambio un certo sostegno elettorale.

La mediazione è sembrata sul punto di dare concreti frutti quando si è consentito al leader del Pkk Abdullah Ocalan, che sconta il proprio ergastolo a vita nell’isola-prigione di Imrali, di realizzare un video in lingua curda in cui i militanti dell’organizzazione erano invitati al dialogo e al compromesso con l’Akp (marzo 2013).

All’indomani delle elezioni del 2015 – in cui l’Akp per la prima volta perde la maggioranza assoluta in parlamento anche a causa dei consensi raggiunti dal partito filo-curdo Hdp – sia la guerra in Siria che il ‘tradimento’ dei curdi che partecipano alle proteste di Gezi Parki vengono utilizzati per sposare le più rigide posizioni del Mhp con cui l’Akp costituisce la coalizione di governo e riportare il dibattito nell’ambito delle politiche per la sicurezza nazionale.

Così, ad esempio, si ampliano i poteri dei governatori provinciali (di nomina governativa) per la dichiarazione del coprifuoco nelle province curde (2015) e si giustifica la riconfigurazione dei seggi elettorali di queste province nelle discusse elezioni del 2018.

Autoritarismo competitivo 

L’erdoganismo, dunque, sembra aver riconfigurato il paese come un vero e proprio autoritarismo competitivo, le cui più evidenti conseguenze si notano anche sulla compressione della libertà di espressione di accademici, giornalisti e giudici.

Un sistema in cui in cui esiste una competizione reale ma non equa per il potere in ragione di meccanismi che favoriscono la preservazione del potere nelle mani di chi lo detiene e che sono incompatibili con una definizione compiuta di democrazia che peraltro non può e non deve esaurirsi nel solo momento elettorale.

Per comprendere appieno le fallacie attuali dell’ordinamento turco non possono tuttavia tacersi le linee di continuità con la tradizione politica turca.

Autorevole dottrina turca sottolinea infatti come le difficoltà nel rispettare le regole della democrazia e dello stato di diritto siano una diretta conseguenza delle modalità con cui si compie la transizione alla Repubblica nel 1924.

La "sindrome di Sévres” che caratterizza il momento fondativo rende centrale il principio di integrità territoriale che si giustifica solo in nome della fittizia omogeneità della popolazione di cui la Turchia riesce a convincere il mondo al momento della conclusione del Trattato di Losanna, da cui i limiti alle garanzie per i diritti delle minoranze religiose ed etniche derivano.

L’individualismo, che è caratteristica pivotale del costituzionalismo liberal-democratico, diviene pertanto marginale rispetto alla tutela della nazione, che va protetta anche dai suoi cittadini.

Si osserva inoltre una immaturità dell’intera classe politica, interessata ad assicurarsi la permanenza al potere più che la realizzazione del proprio programma politico.

Al tempo del kemalismo, il secolarismo è l’arma utilizzata per costituire una coalizione di forze che include i militari e giustifica i colpi di stato.

Al tempo dell’erdoganismo, invece, il potere dei militari si riduce ma emergono altre forze, tra cui una nuova borghesia imprenditoriale, sin ora interessata a mantenere l’Akp al potere.

Resta da chiedersi se le posizioni di quest’ultima, e anche degli altri strati della popolazione più esposti alla crisi economica, non cambieranno in occasione delle prossime elezioni generali previste per il 2023, che si annunciano come il definitivo banco di prova non solo per Erdogan ma anche per la dottrina che porta il suo nome.


Valentina Rita Scotti insegna Diritto Pubblico Comparato nella European Law and Governance School (ELGS) della European Public Law Organization (EPLO) in Grecia.  Per il Mulino ha appena pubblicato La Turchia di Erdogan

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