Tutti attendono un cessate il fuoco che a Gaza non viene. I negoziati proseguono a singhiozzo senza molti risultati. I mediatori – attuali o possibili – sono in difficoltà. Da una parte l’attenzione è concentrata sulle relazioni Biden-Netanyahu, dove sembra che gli americani ogni giorno di più stiano perdendo presa sui loro protetti.

Tuttavia uno dei problemi maggiori rimane quello del soggetto politico palestinese. Hamas sembra per ora l’unica forza disponibile, anche se quasi più nessuno la vuole come interlocutore dopo le atrocità del 7 ottobre.

Con il movimento terroristico ci si limita alla questione dello scambio “ostaggi-tregua” mentre ci si continua a chiedere chi governa attualmente Gaza o almeno Rafah: quel poco di ordine che rimane è opera dei miliziani che però principalmente si nascondono.

Qualche clan familiare ha ripreso l’iniziativa prima che l’ordine sociale collassi del tutto, come si è visto nella complicatissima opera di distribuzione degli aiuti che arrivano dal cielo.

Faida permanente

La questione è anche politica, non solo emergenziale: da parte palestinese si fa davvero fatica a intravvedere un soggetto che possa incarnare l’unità del popolo. I palestinesi sono nel mezzo di una faida permanente che non permette loro di fronteggiare Israele in maniera unitaria.

È inutile lamentare le intromissioni di quest’ultimo: se rimani diviso il tuo nemico ne approfitterà sempre. Anche nella West Bank la situazione è anarchica e si potrebbe quasi dire che la vita va avanti da sé, senza il governo Anp ormai del tutto screditato.

L’altro giorno le Brigate Jenin hanno condannato a morte e fucilato un palestinese ritenuto spia degli israeliani: si tratta del terzo caso dal 7 ottobre, almeno tra quelli “ufficializzati”. La società palestinese è profondamente divisa e intimamente ferita. Le stesse brigate Jenin hanno ciascuna una fedeltà diversa anche se militarmente vengono coordinate in modo unitario.

Attualmente rappresentano una forma di resistenza molto indebolita dai raid israeliani, ciò che avanza delle forze di autodifesa. La stessa Fatah di Jenin era quella di Marwan Barghouti – tuttora in prigione – che dopo il 7 ottobre ha chiamato a combattere.

Chi possiede ancora un po’ di autorità civile in città è la famiglia Zubeidi, anch’essa decimata. A Nablus c’è Lion’s Den (la fossa dei leoni), o quel che ne rimane perché molti dei suoi giovani combattenti sono stati uccisi o arrestati.

Si tratta di una formazione indipendente sia da Hamas, che da Fatah o dalla Jihad islamica. Quest’ultima è l’unica formazione senza ala politica ma solo militare, ed è influente a Gaza e attorno a Jenin ma sospettata di essere vicina allo Stato islamico.

Ramallah rimane il regno dell’Anp, l’unica città dove esiste ancora un po‘ di movida notturna, sotto stretto controllo dal sodalizio Abbas-Israele. Tulkarem è geograficamente chiusa dal muro israeliano e quindi meno fonte di attacchi.

Tuttavia ultimamente le deboli brigate Tulkarem sono state rafforzate da elementi in fuga dalle altre città palestinesi. In tale intrico confuso e disordinato, dalle mille fedeltà incrociate, è tramontato in poche ore il tentativo dell’Anp di nominare come nuovo primo ministro Mohammed Mustapha, presto impallinato dalle varie tendenze.

Ciò che si può prevedere è che la rimanente Fatah di Mahmoud Abbas sarà posta alle strette: le altre tendenze cercheranno di metterla con le spalle al muro perché ceda il potere in un modo o nell’altro e nomini come premier Nasser al Qudwa, gradito sia a Hamas che a Marwan Barghouti.

Nipote di Arafat, al Qudwa fa parte del comitato centrale di Fatah, è stato rappresentante a New York e ha lavorato per le Nazioni unite come vice rappresentante speciale per l’Afghanistan e poi per la Siria. La resilienza dell’attuale dirigenza dell’Anp risiede nell’appoggio diretto di Israele e indiretto degli Usa, degli Emirati e dell’Arabia Saudita.

Il ruolo dell’Europa

In occidente, e soprattutto in Europa, chi sostiene la causa palestinese non si sta sufficientemente adoperando per dirimere il caos che regna tra le varie fazioni e spingerle verso un accordo.

Bisogna tener conto che non si tratta di opera facile, vista la poca democrazia interna e la carente capacità di dialogo che regna nella compagine palestinese in generale.

Mentre in Israele infuriano le polemiche, il silenzio e l’ingessatura che dominano nelle relazioni intra-palestinesi diminuiscono la capacità politica di tener testa agli avversari e attrarre appoggi, salvo quelli interessati o ambigui.

Come solidarietà attiva dall’esterno non bastano certo le manifestazioni nelle università occidentali o di piazza (specie se anti-israeliane): ci vuole ben altro, qualcosa che abbia la necessaria prospettiva.

In tal senso esiste un possibile ruolo per l’Ue, che non si limiti a critiche o invettive ma si concentri nel trattare con tutte le parti, inclusa Israele, per favorire l’emersione di una nuova leadership palestinese in grado di negoziare in futuro.

Si tratta di un’azione difficile visto i molteplici interessi a mantenere tutto nell’attuale situazione di anarchia violenta. Ma si tratta tuttavia di un impegno essenziale se si vuole la pace e la salvezza delle vite dei civili.

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