Il 16 febbraio ci ha lasciato Giorgio Ruffolo; non era una figura di grande risalto, ma uno dei pochi che provarono a mettere l’Italia sulla strada di una crescita robusta, equilibrata perché civile, economica e sociale. Dopotutto, proprio questo sarebbe il dovere degli economisti com’era Ruffolo, non produrre complessi ma sterili modelli, senza ricadute nella realtà.

Non si può dire che gli sforzi della sparuta schiera di cui egli fu parte abbiano avuto successo; che però l’Italia, grazie a loro, sia un po’ migliore di quel che sarebbe altrimenti stata, questo si può, anzi si deve dire. In un paese imbesuito dai lustrini del festival di Sanremo, che indossa il lutto nazionale alla morte di cantanti o attori anche di terza fascia, non sorprende che pochi l’abbiano ricordato.

La stagione più significativa dell’economista, che poi divenne politico socialista, fu al ministero del Bilancio, dove Ugo La Malfa lo volle come segretario generale per la programmazione economica nel 1962 quando, subito dopo la morte di Enrico Mattei, Ruffolo lasciò l’Eni. 

Sporcarsi le mani

Cosa ha avuto di speciale Ruffolo? È stato uno dei pochi nostri economisti che, magari dopo lunghe e problematiche meditazioni, si sono “sporcati le mani” nell’azione di governo. E si capisce perché; quando cozzano con la realtà sul campo, idee (e preconcetti) spesso crollano senza riguardo per la solenne storia da cui vengono.

Ruffolo voleva superare i limiti della nostra economia e avviarla a un nuovo modello di sviluppo. Cercò di fare il contrario di quanto sosteneva Giovanni Giolitti, per cui: «Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo deve fare la gobba anche all’abito». Ruffolo, e pochi altri economisti italiani, hanno scartato la strada più agevole, e si sono spesi per raddrizzare almeno qualche gobba. Per questo Amintore Fanfani definì «libro dei sogni», il “Piano 80” di Ruffolo.

Valore umano

Ho anche un minimo ricordo personale del suo valore umano; nel 1975 egli fu il primo presidente della Finanziaria meridionale (Fime), nata con grandi speranze per promuovere un sano sviluppo economico al sud. Ruffolo aveva appena siglato la pre-intesa con un noto industriale milanese: la Fime avrebbe acquistato i terreni di una grande azienda agricola in crisi, che li avrebbe poi presi in affitto a un canone “di mercato”.

Chiamato a mettere a punto i dettagli, spiegai al presidente che l’intesa doveva decadere; era allora vietato percepire per quei terreni un affitto maggiore dell’equo canone. Preso alla sprovvista, Ruffolo disse che una simile assurdità ricordava la guerra ai kulaki scatenata dalla “nuova politica economica” staliniana.

Va detto che due giorni prima il Psi aveva subìto un tracollo elettorale, tanto da far dire all’allora segretario del Psi, «Abbiamo scosso l’albero ma i frutti li hanno presi gli altri», cioè il Pci. Gli replicai allora, citando un motto socialista: «Professore, abbiamo introdotto elementi di socialismo nel sistema».

Un altro mi avrebbe fatto pagar cara la frase detta, in quel momento, con un sorrisetto irritante; tutto il contrario avvenne, nonostante il mio sgarbo provocatorio, adatto più a uno scambio di battute fra eguali che al resoconto dell’analista al presidente.

Ciò fece, e fa ancora ai miei occhi, di Giorgio Ruffolo non solo uno dei pochi economisti di vaglia che s’è “sporcato le mani”, ma soprattutto un uomo rispettoso del lavoro altrui, anche quando ostacolava i suoi programmi.

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