Nei suoi primi decenni di vita, dall’unità sino alla fine dell’Ottocento, il Regno d’Italia complessivamente delude: lo sviluppo economico è stentato, il paese fatica ad agganciare il treno dell’industrializzazione e i redditi degli italiani crescono meno di quelli dei nostri vicini; l’emigrazione ha cominciato a portare via centinaia di migliaia, e poi milioni, di giovani; nel 1892, lo scandalo della Banca Romana porta alla luce un diffuso malaffare e squaderna l’inadeguatezza della classe dirigente del tempo, oltre a mettere in crisi il sistema bancario; di lì a poco gli spazi di democrazia cominceranno a restringersi, anziché allargarsi, con la messa fuori legge del Partito socialista italiano, nel 1894, e poi ancora con la virata reazionaria dei governi di Rudinì e Pelloux e la strage di Bava Beccaris a Milano, nel maggio 1898; quanto al prestigio internazionale, per come allora si misurava, nella gara imperialistica alla spartizione del mondo l’Italia risulta la prima e l’unica potenza europea sconfitta da un paese africano, ad Adua, nel marzo 1896.

Sul finire del secolo, si nota però una certa vivacità della nostra economia: sta iniziando il decollo economico, concentrato nel nord ovest ma basato su una grande varietà di settori tanto della prima quanto della seconda rivoluzione industriale; finalmente, si accorciano anche le distanze con le economie europee più avanzate. Presto, si aprirà una nuova stagione anche nella vita politica e civile, con l’ampliamento della partecipazione democratica, che vede la piena inclusione dei socialisti e dei cattolici nel gioco parlamentare e anche nelle prime esperienze di governo locale, e nuove relazioni industriali, facilitate da un nuovo atteggiamento dello stato nei confronti dei sindacati e del movimento operaio.

La modernizzazione del paese

Bonaldo Stringher (foto Wikipedia)

I governi della sinistra liberale, guidati da Giovanni Giolitti, sanno guidare questa prima rinascita economica e civile del paese e, fra le altre cose, riformano l’istruzione, pongono le fondamenta del nostro welfare state e avviano anche le prime politiche per lo sviluppo del Sud (benché rivelatesi già allora problematiche). Nella gestione economica, sono aiutati da una nuova istituzione, che proprio negli anni turbolenti dello scandalo della Banca Romana (1892-93) aveva visto la luce, per cercare di rimettere ordine nel sistema finanziario del nostro paese: è la Banca d’Italia. Qui la figura chiave è Bonaldo Stringher, che nel 1900 ne assumerà la guida.

A Stringher, legato anch’egli alla sinistra liberale dell’epoca (vicino a Giolitti, era stato anche deputato, sottosegretario e sarà brevemente ministro nel 1919) ma soprattutto un tecnico universalmente apprezzato (anche da Crispi), si devono la riorganizzazione dell’istituto, l’eccellente politica monetaria che accompagnò gli anni del «miracolo giolittiano» e le prime operazioni di una certa complessità e ben riuscite, dalla conversione della rendita italiana nel 1906 (con la riduzione del tasso di interesse e un notevole risparmio per le finanze pubbliche) alla gestione della crisi finanziaria del 1907 (con il salvataggio della Società Bancaria Italiana).

Rimasto alla guida della Banca d’Italia per ben trent’anni, fino alla morte, un record anche nei confronti internazionali, Stringher avrà un ruolo decisivo nell’individuare e indirizzare alcuni dei protagonisti della seconda rinascita economica dell’Italia, in età repubblicana: a partire da Donato Menichella, assunto in Banca d’Italia nel 1921 e che, dopo un passaggio all’Iri, guiderà l’istituto negli anni del vero e proprio miracolo, dal 1948 al 1960. Difatti la Banca d’Italia rimarrà per tutto il fascismo, anche dopo la morte di Stringher, e pur dovendosi piegare alle scelte del regime già dal 1926, una fucina per la costruzione di una classe dirigente di grande valore, che svolgerà un ruolo cruciale nella modernizzazione del paese. Il suo lascito arriva fino ai nostri giorni: si pensi alle figure di Carlo Azeglio Ciampi e, poi, di Mario Draghi (ma anche, per esempio, a Fabrizio Barca). Nessun’altra istituzione italiana ha svolto un ruolo simile, nella storia del nostro paese, peraltro apprezzato a livello mondiale.

Istituzioni e classi dirigenti: due visioni

Il primo mezzo secolo di vita della Banca d’Italia è ora ricostruito in un volume di circa 800 pagine da Gianni Toniolo (Storia della Banca d’Italia. Tomo I. Formazione ed evoluzione di una banca centrale, 1893-1943, Il Mulino, 2022), uscito pochi giorni prima della sua morte. Il libro è quindi anche l’ultimo, monumentale, lascito di uno dei nostri migliori storici economici. Un lascito che colma un vuoto importante per la comprensione del nostro paese. Toniolo stava lavorando anche alla seconda metà, come si legge, ne aveva già avviato il «cantiere».

La Banca d’Italia è stata l’espressione istituzionale, per così dire, di una idea della modernizzazione del paese che, a fronte dei nostri limiti strutturali (limiti di popolo e di populismo, dei suoi borghesi e dei suoi «lazzari»), ha visto e vede nell’azione di classi dirigenti «illuminate» la chiave per consentire all’Italia di raggiungere gli standard di benessere propri degli altri paesi avanzati. Gli antecedenti sono in Cavour. Luigi Einaudi, forse l’esponente massimo di questa concezione almeno sul piano politico, fu anch’egli governatore della Banca d’Italia, dal 1945 al 1948, anche se non si era formato al suo interno. Le imprese pubbliche e alcuni loro dirigenti, da Enrico Mattei a Oscar Sinigaglia, hanno forse svolto un ruolo simile (e non a caso alcune figure, come Menichella, sono comuni a entrambe), ma per un periodo di tempo molto più limitato (dagli anni Quaranta alla metà degli anni Sessanta); la continuità della Banca d’Italia è invece davvero eccezionale.

A ben vedere, però, questa impostazione «elitaria» ha dato i suoi frutti migliori quando si è incrociata con un’altra, dal basso, che vede la chiave per modernizzazione il paese nella partecipazione popolare e nella progressiva inclusione dei ceti subalterni, attraverso i partiti di massa e i corpi intermedi della società. Una visione opposta, quindi, i cui antecedenti sono in Mazzini; ma non necessariamente alternativa. Già nell’Italia liberale, ritroviamo questa visione in figure come Filippo Turati o Luigi Sturzo, o anche in una personalità intermedia come Francesco Saverio Nitti (che non a caso, nel 1919, si alleò con popolari e socialisti per introdurre la legge elettorale proporzionale); e poi, naturalmente, in Gramsci, Togliatti, Nenni, Moro.

Lezioni per oggi?

Soprattutto durante il miracolo economico, queste due visioni si tengono insieme e danno forma, non a caso, al periodo migliore della storia economica d’Italia. Il connubio riprende poi, brevemente, negli anni Novanta, con Amato e quindi con Ciampi e Prodi. Negli ultimi due decenni, il legame si spezza. Assistiamo a una divaricazione fra le due spinte: senza più i grandi partiti di massa, la politica, indebolita e demagogica, lascia in realtà il governo della cosa pubblica alle élite; e il governo delle élite, tecnocratico, finisce per aumentare ulteriormente la risposta populistica.

Circa un secolo fa, nella crisi dello stato liberale, accadde qualcosa di simile. Nonostante gli sforzi di Nitti, o di Matteotti, già allora le due visioni non seppero riconciliarsi. Dapprima furono sconfitti i grandi partiti popolari. La politica italiana cadde preda del fascismo, a poco a poco le élite liberali si ritrovarono isolate e alla fine, anche nella Banca d’Italia, dovettero cedere al regime.


Storia della Banca d'Italia – Volume I. Formazione ed evoluzione di una banca centrale, 1893-1943 (Il Mulino 2022, pp. 840, euro 58) di Giovanni Toniolo 

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