Il 27 ottobre 1962, 60 anni fa, il presidente dell’Eni Enrico Mattei morì a Bascapè, in provincia di Pavia, nello schianto dell’executive Morane-Saulnier 760 “Paris II” di proprietà della Snam. Pochi giorni dopo il suo posto venne preso dal suo storico braccio destro, Eugenio Cefis, che pure dieci mesi prima se n’era andato dall’Eni a causa delle profonde divergenze strategiche con il numero uno.

Un nuovo importante contributo alla conoscenza di una pagina misteriosa della storia italiana arriva con il libro di Giuseppe Oddo e Riccardo Antoniani L’Italia nel petrolio. Mattei, Cefis, Pasolini e il sogno infranto dell’indipendenza energetica (Feltrinelli).

Già, c’è di mezzo anche Pier Paolo Pasolini, del quale quest’anno ricorre il centenario della nascita, e vedremo più avanti perché. Ma la prima domanda che un lettore, soprattutto se giovane, si pone di fronte alle oltre 500 pagine di ricostruzione approfondita, arricchita da molti documenti inediti, è la più ovvia: perché occuparsi di storie di sessant’anni fa?

Il passato prossimo

I due autori danno la risposta per sottintesa: sono cose importanti ed è il loro mestiere. Oddo è un navigato inchiestista economico e ha all’attivo diversi volumi connessi alle vicende energetiche. Antoniani insegna letteratura italiana alla Sorbona di Parigi e analizza in modo chirurgico il romanzo incompiuto di Pasolini, Petrolio, ripubblicato a marzo scorso da Garzanti in una nuova edizione critica curata da Walter Siti, che considera la gestazione dell’opera all’origine della decisione di uccidere lo scrittore bolognese.

Il lettore ha però bisogno di una spinta più robusta per affrontare il tomo. Una prima, non del tutto convincente, ragione di interesse per questo passato ormai remoto (Pasolini è stato ucciso 47 anni fa, solo 13 dopo Mattei) è che Mattei è stato un antesignano delle forme oggi in voga di nazionalismo, sovranismo e populismo. Tanto che la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nel suo discorso programmatico alla Camera, non ha mancato di metterlo al centro del suo pantheon.

Ma Mattei è personaggio sfaccettato. Nella storica foto, che tutti hanno visto almeno una volta, dei leader politici del Cln che guidano il corteo dei liberatori di Milano il 25 aprile 1945 si vedono in prima fila il laico Ferruccio Parri, il monarchico-badogliano Raffaele Cadorna, il comunista Luigi Longo e il capo partigiano democristiano Enrico Mattei.

Tre giorni dopo il partigiano viene nominato commissario liquidatore dell’Agip, la società pubblica che si occupava di estrarre gas e di acquistare, lavorare e vendere il petrolio. A Mattei, marchigiano allora 39enne, è attribuita l’intuizione di sviluppare, anziché liquidare, l’Agip, e farne lo strumento per perseguire l’indipendenza energetica italiana.

Anziché comprare il petrolio dalle “sette sorelle”, le maggiori compagnie petrolifere mondiali, va a fare accordi diretti per l’estrazione con i paesi produttori, ai quali lascia una quota del prodotto molto più alta di quella che gli lasciano gli americani. Mattei arriva a dividere gli utili fino al 50 per cento negli accordi con Egitto, Iran, Tunisia e Marocco. La sua logica è facilmente comprensibile: io sfrutto meno i paesi produttori e questi più facilmente mi daranno petrolio a buon prezzo per alimentare la ricostruzione post bellica e poi il boom economico.

Tanto l’Eni è un ente pubblico che non persegue i profitti come le compagnie private americane, inglesi e olandesi. Non a caso i nemici italiani lo attaccheranno per i risultati economici insoddisfacenti. Ma è soprattutto alle "sette sorelle", quasi tutte targate Usa, che il modello Mattei non piace. Preferiscono una penisola assoggettata alla dipendenza energetica. E quasi tutti i politici italiani al tempo di Mattei consideravano la sudditanza agli Usa il loro core business o, se si preferisce, il loro dovere istituzionale.

Cefis e Mattei

Chi dunque pensa a Mattei come a un eroe sovranista non tiene conto che il risultato finale della sua battaglia è stato farsi ammazzare. Chi è stato? Bella domanda. Non si può non ricordare che un anno prima, il 9 novembre 1961, era morto in un incidente stradale sospetto l’ingegnere romano di origine cinese Mario Tchou, 37 anni, che stava guidando l’Olivetti (vent’anni prima del personal computer) alla conquista del primato tecnologico nell’informatica.

I suoi colleghi di Ivrea hanno sempre sospettato che la morte di Tchou fosse stata voluta dai servizi segreti americani per proteggere il monopolio dell’Ibm. Quanto a Mattei, Oddo e Antoniani esaminano in modo certosino tutte le ipotesi avanzate da sessant’anni a questa parte.

Furono gli americani? O i francesi, furenti perché Mattei stava per firmare un accordo di cooperazione petrolifera con l’Algeria che aveva conquistato l’indipendenza da Parigi solo quattro mesi prima? O il mandante era stato Cefis, il vero fondatore della loggia P2 prima di passarla a Umberto Ortolani e Licio Gelli, per scalare il vertice dell’Eni e riportarlo su una linea di maggiore fedeltà ai diktat americani e francesi? Una risposta certa non l’ha nessuno.

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Solo una cosa è chiara: all’assassinio di Mattei hanno collaborato, servizi deviati italiani e mafia. Tanto che nel 1986 fu Amintore Fanfani, storico leader democristiano nonché primo vero sponsor di Mattei, a retrodatare dal 1969 (piazza Fontana) al 1962 (Bascapè) l’inizio della stagione del terrorismo e delle stragi. Per il resto rimane tutto un po’ confuso. Anche perché, in definitiva, non solo con il passare degli anni le immagini si annebbiano, ma anche nel presente, come sanno i giornalisti più seri, non è sempre facile capire nitidamente il rapporto tra cause ed effetti o tra complotti e risultati.

Siti per esempio sostiene nella postfazione a Petrolio che il romanzo «è probabilmente la causa dell’assassinio di Pasolini, (...) per impedirgli di raccontare che Cefis fu il mandante dell’attentato a Mattei». Ma non perché Pasolini stava per scrivere che era stato Cefis il mandante dell’assassinio di Mattei, cosa che nella sua incompiuta stava facendo in maniera ellittica e molto letteraria.

Il punto è che qualcuno credeva che lo avrebbe fatto in modo affilato e documentato. La verità è tragica e beffarda, secondo Siti: «È terribile a dirsi, ma Petrolio è costato la vita al proprio autore per un maledetto intreccio di indiscrezioni, ignoranza e malinteso; contro la vulgata di chi afferma che Pasolini fu ucciso dal discredito che gli era stato creato attorno, dalla macchina del fango che lo aveva colpito per anni, bisogna ammettere che gli assassini avevano invece sovrastimato la sua influenza e l’intelligenza delle masse. (La macchina del fango è servita semmai da scusa, da eccipiente utile al depistaggio)».

Così ci avviciniamo alla ragione vera per cui è utile, nel caso di Mattei, Cefis e Pasolini, occuparsi di cose lontane nel tempo. Mattei non solo ha raggiunto l’unico obiettivo di farsi ammazzare, ma dopo lo schianto di Bascapè ha lasciato ben pochi rimpianti nel mondo politico italiano.

Il ruolo degli americani

Pochi giorni prima Aldo Moro, segretario della Democrazia cristiana, gli aveva scritto una compita letterina in cui gli consigliava vivamente di dare le dimissioni. Conoscere la sua storia serve per confrontarla con il presente e valutare quanto, oggi, l’Italia sia ancora, non solo economicamente, una colonia. Il libro di Oddo e Antoniani ci fornisce numerose prove di come la battaglia politica si giocasse allora e nei decenni successivi sulla contesa tra i leader politici su chi otteneva maggior benevolenza dal governo americano.

Marco Follini, nel suo recente Il labirinto di Aldo Moro, analizza fino alla sottigliezza psicanalitica l’angoscia pluridecennale del leader democristiano per i minacciosi segnali di ostilità che gli arrivavano da Washington.

Al punto che la lettera del 19 settembre 1962 a Mattei, riletta oggi, sembra quasi voler mettere il manager marchigiano in guardia dalla carica di esplosivo che il mese successivo lo ucciderà: «Io metto in primissima linea il tuo disappunto, anzi il tuo evidente e comprensibile dispiacere. Lo noto personalmente e mi pesa molto. Ma, credi, nella situazione attuale non c’è di meglio da fare».

Il merito, e l’interesse attualissimo di L’Italia nel petrolio è che in definitiva suscita nel lettore la voglia di rivolgere al ceto politico attuale, e in particolare a chi ha appena conquistato palazzo Chigi, la domanda delle domande: questa subordinazione coloniale della politica nazionale agli interessi americani, talmente marcata da essere il vero terreno di battaglia tra i partiti e dentro i partiti, nella gara a chi è più filoamericano, è finita o è ancora attuale? E chi dice che è finita ci indichi per cortesia in che anno e in che giorno è finita.


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