Ho avuto la pessima idea di assistere alla conferenza di fine anno di Meloni. E l’inquietudine che ne ho tratto mi ha fatto capire ciò che manca davvero alla sinistra di oggi: persone profetiche. Provo a spiegarmi meglio. A parte alcune voci coraggiose (perlopiù su questo giornale), mi pare vi sia una forma di sottovalutazione del governo attuale. È probabile che questa sottovalutazione sia dovuta a quel che Habermas individua come lo specifico difetto culturale del nostro tempo: «Imparare sempre di più su sempre di meno». Anche rispetto alle prospettive del governo applichiamo questa minuziosa separazione dei campi del sapere.

Ci preoccupiamo del presidenzialismo o della riforma fiscale o della sanità morente o della scuola ridotta ad apprendistato lavorativo. Ognuna di queste cose ci inquieta per sé, non in rapporto alle altre. E così ciascuno di noi si occupa di quel che sa, cioè necessariamente sempre di un singolo aspetto.

Da un certo punto di vista tutto ciò è anche consolante e, forse, necessario per la nostra sopravvivenza emotiva: è già sufficiente pensare di doverci opporre a ciascuna delle cose che si prospettano per essere oppressi da un sentimento di angoscia politica.

Una visione profetica

Ecco, contro questa tentazione di concentrarci ciascuno sul proprio campo del sapere, propongo invece un semplicissimo esperimento mentale, che è poi nient’altro che l’atto più onesto di realismo politico. Immaginiamo come sarà l’intero della nostra società tra cinque anni, alla fine di questo governo. Una sistemazione istituzionale si sostituirà a quella fissata dalla Costituzione.

Le riforme economiche e fiscali scaveranno ancora di più il divario tra i molti e i pochi, ma anche tra gli onesti e i disonesti. Il welfare sarà svuotato della sua sostanza pubblica per diventare preda esclusiva del privato.

Non siamo di fronte a singole controriforme, ma a una nuova istituzionalizzazione della società. Gli specialisti storceranno il naso, dicendo che tutto ciò suona astratto. Invece ha un significato concretissimo, il più concreto di tutti: tra cinque anni non ci saranno parti della vita singolare di ciascuno che non saranno terribilmente mutate, negli orizzonti di significato e nel loro valore (a parte quelle ore della nostra vita non politicizzate e non economizzate, se ancora esistono).

Tutte cose banali, in fondo. Il problema è che questo esercizio di immaginazione non solo non è difficile, ma soprattutto non è fantasioso. Per capirlo, basta provare a rispondere a una domanda: che cosa potrebbe scongiurare questa profezia di sventura?

I tre antidoti ormai in crisi

Qualcuno dirà che dobbiamo affidarci alla debolezza strutturale della destra. Ma sinceramente mi limito a osservare i numeri parlamentari e la storia, ancorché brevissima, di questo governo. Bisogna dare atto alla Meloni che non sta accentuando le crepe ma sta tenendo insieme il proprio campo concedendo a ciascuno quanto basta ai suoi interessi. Mentre la forza degli interessi è un dato di fatto assai solido, la debolezza strutturale della destra è solo un auspicio.

Ci rimangono cinque anni per costruire un’opposizione politica, dunque. Ma le prospettive anche in questo caso mi sembrano più indice d’impotenza che di speranza.

Il minimo che si possa dire è che il processo costituente si stia trasformando in un gioco di ruolo per addetti ai lavori. Lasciando in sospeso proprio quell’opacità epistemologica da cui sono partito: il Pd è un partito incapace di fare i conti con l’intero della società, con la sua trasformazione istituzionalizzata.

È per questo che si genuflette così spesso ai tecnici. Il suo motto è proprio quello evidenziato da Habermas: conviene parlare sempre di più ma su sempre meno cose e in ogni caso occupandosi di una cosa alla volta, rimuovendo sistematicamente il centro della politica, cioè il potere di trasformare la società.

Allora non resta che affidarci al mito della società civile, dentro cui poter trovare le resistenze che il terreno politico sembra negarci. Anche della società civile in Italia sono rimasti solo dei simulacri, esperienze più orientate alla memoria del passato che a sperimentare forme per incidere sul presente.

In un dialogo avuto qualche tempo fa con una giornalista spagnola inviata in Italia, mi è stato detto – giustamente – che la differenza tra la sinistra spagnola e quella italiana sta nel fatto che da loro la società sta avanti rispetto alla politica, che è così costretta a inseguirne le istanze.

In Italia questo vantaggio della società sulla politica ci ha permesso di superare (più o meno) indenni il periodo berlusconiano. Ma oggi mi pare che non sia più così: la società italiana non è più in grado di produrre idee profetiche ad uso politico. Non sta più avanti rispetto alla politica, ha poco da insegnargli.

E dunque, a cosa affidarci per sventare ciò che tra cinque anni è realistico prevedere, se niente di ciò che potrebbe salvarci è degno di speranza? In realtà l’esercizio che ho proposto mi pare decisivo per rendere concreta l’azione politica.

Se il profeta è colui che vede ciò che nessuno vuol vedere nonostante sia sotto gli occhi di tutti, è solo recuperando questo sguardo che possiamo immaginare forme di emancipazione che non siano false e tutto sommato inutili.

È in fondo il suggerimento di un celebre libro di Maurizio Viroli dedicato ai Tempi profetici. Ci sono tempi in cui non si dà emancipazione politica senza profezia. E dunque il primo gesto per un’emancipazione autentica è quello di vedere ciò che accadrà in tutta la sua gravità, non di separare la realtà in infinite partizioni specialistiche.

Ha ragione Habermas e tutti noi siamo chiamati a questo sforzo letteralmente profetico: chiamare le cose con il loro nome, anche se spiacevole. E forse, d’incanto, anche la sinistra la smetterà di giocare come se niente di ciò che avverrà fosse minimamente vero.

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