Un convitato di pietra siede ai tavoli della propaganda dei due fronti del conflitto russo-ucraino: l’antisemitismo.

A cominciare dall’ormai celebre definizione putiniana di essere un manipolo di «drogati e nazisti» rivolta ai governanti ucraini, non si contano le reciproche accuse fra i due leader di essere l’Hitler di oggi. Così come le accuse ai rispettivi apparati militari di includere battaglioni di matrice neonazista.

Ora, detto e sottolineato che l’antisemitismo è una pratica assai diffusa da quelle parti, a partire dai ciclici pogrom di cui è cosparsa la storia russa, fino al massacro di Babi Yar, che certo non ha visto la strenua resistenza della popolazione locale.

Stendendo, poi, un velo pietoso sul periodo sovietico che ha riproposto le peggiori politiche antiebraiche, questo utilizzo di Hitler come incarnazione del male dovrebbe, in fondo, suscitare un certo sollievo nella popolazione ebraica mondiale, che del suo progetto criminale è stata la prima vittima. Una nuova conferma dell’antisemitismo come tabù del nostro tempo. Ma non tutto è come appare in superficie.

Va anzitutto rimarcata la matrice tipicamente antigiudaica dei recenti discorsi putiniani, intrisi di teorie del complotto, che, come ci insegnano anche questi anni di pandemia e bislacche teorie della sostituzione etnica, vedono sempre spuntare il burattinaio ebreo, che oggi ha assunto i panni del finanziere di origine ungherese George Soros. Primo punto: ogni volta che sentite nominare Soros è per non dire ebreo.

Sottovalutazione della Shoah

In secondo luogo, non si può sottacere di fronte a questa banalizzazione della Shoah e del nazismo, a cui, spiace dirlo, ha anche partecipato il presidente ucraino ed ebreo Volodymir Zelensky, evidentemente mal consigliato, nel suo recente discorso alla Knesset, paragonando la condizione ucraina alla soluzione finale nazista.

Allo stesso modo, spiace sentire un intellettuale ebreo come Bernard-Henry Levy, coinvolto in prima persona in una battaglia di lungo corso a sostegno dell’Ucraina, confrontare la resistenza di Kiev con quella del ghetto di Varsavia. Si tratta, evidentemente, di fenomeni incommensurabilmente diversi.

Di fronte a questo iato anche la retorica più impegnata dovrebbe arrestarsi. Un processo di relativizzazione di quello che un tempo si definiva Olocausto (termine rimasto vivo nel vocabolario anglosassone), che ha portato in questi ultimi anni a una riscrittura storica, in cui si sono visti sorgere musei della Shoah (vedi quello di Budapest) utili più a discolpare la popolazione locale dal collaborazionismo con i nazisti piuttosto che a promuovere una riflessione su quel tragico episodio storico che mai avrebbe potuto concretizzarsi senza l’attivo coinvolgimento dei popoli europei e non certo solo dell’est.

Va sempre ricordato che la macchina nazista da nessuna parte è stata efficiente quanto in Olanda, la patria di Anna Frank. Per non menzionare la Repubblica di Vichy, recentemente persino dipinta come baluardo a difesa degli ebrei francesi dal candidato, ahimè anche lui ebreo, Éric Zemmour.

Oltre ciò, l’infamia italica delle leggi razziste, volute sì da Benito Mussolini nel 1938 in nome dell’alleanza con Hitler, ma certo non prodotto endogeno alla cultura italiana (vedere gli studi di Michele Sarfatti in merito).

Insomma, una rilettura che ha come obiettivo la formazione di un’immagine del nazismo come puro prodotto tedesco subìto dai popoli europei, sottacendo di fronte alla verità della partecipazione attiva delle nazioni conquistate alle persecuzioni antiebraiche.

Fa parte di questo percorso l’indegna legge polacca che vieta di accostare i campi di sterminio alla propria nazione, pena la reclusione. Siamo giunti al paradosso di non poter definire Auschwitz «campo polacco», come se l’antisemitismo non fosse di casa nella storia del paese. Lo stesso del pogrom di Kielce (data 1946) e delle purghe antiebraiche orchestrate dal generale Moczar nel marzo del 1968, che costrinsero alla fuga 15.000 ebrei. Solo per restare nello scorso secolo.

Un’inversione a “U” storiografica impensabile per una generazione come la mia a cui era stato insegnato come lo sterminio nazista mai avrebbe potuto compiersi senza il collaborazionismo europeo.

Ma questa relativizzazione si è spinta anche oltre: non sulla Germania deve ricadere la colpa di quei crimini orrendi, ma sulla sola Germania nazista. Questa la posizione tenuta negli anni recenti dalla AfD, partito ultranazionalista tedesco sorto, come molti altri in Europa, dalle conseguenze sociali della crisi economica innescata dai subprime americani.

«Noi tedeschi siamo l’unico popolo al mondo che si è piantato un monumento alla vergogna di sé stesso nel cuore della propria capitale», ha affermato nel 2017 Björn Höcke, portavoce del partito, riferendosi alla Topografia del Terrore, il museo berlinese situato nell’area un tempo occupata dagli apparati di repressione del Terzo Reich.

Annacquamento omeopatico

Si finirà col dire che non dei nazisti, ma di Hitler è stata la colpa della Shoah. Ma poi, in fondo, anche lui era una vittima dell’inflazione post-bellica e gli ebrei erano banchieri... e via andare in un processo di annacquamento omeopatico che annullerà qualunque traccia di responsabilità storica.

Tra parentesi, ma poi neanche tanto, ha creato non poco sconcerto a una parte dell’ebraismo della diaspora vedere l’Israele guidato da Benjamin Netanyahu schierarsi dalla parte di questi movimenti nazionalisti che non ci voleva molto a capire si sarebbero rivolti contro gli ebrei stessi, in quanto, se in Europa si apre la deriva xenofoba, l’ebreo finisce col rientrarci, a testimonianza di come sia ancora percepito come ospite.

Così come i rappresentanti all’estero dello stato ebraico hanno spesso strizzato l’occhio ai movimenti xenofobi in nome della comune battaglia all’islam, utilizzando gli attentati in Europa come strumento di propaganda per la loro legittima causa in medio oriente.

Cosa, purtroppo, successa anche in Italia, dove con l’attuale ambasciatore non sono mancate reazioni entusiastiche a prese di posizione leghiste, senza che mai nessuno chiedesse conto a Matteo Salvini dei suoi noti rapporti con movimenti neofascisti.

Insomma, queste retoriche belliche che rispolverano il nome di Hitler ogni tre per due devono suonare come un campanello d’allarme alle orecchie ebraiche, e non solo, perché se tutti sono Hitler, finisce che nessuno lo è mai stato. Nostro dovere è separare, direi talmudicamente, il grano dall’oglio, e distinguere la propaganda dalla causa che si vuole difendere.

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