L’assalto al Campidoglio di Washington si è concluso con quattro morti, una serie di funzionari dimissionari nell’amministrazione Trump, le richieste di destituzione dei democratici, la cacciata da Facebook del presidente e la certificazione formale del successore, Joe Biden. Ma la questione lacerante che l’episodio eversivo ha squadernato anche sotto gli occhi di chi non voleva vedere è tutt’altro che chiusa. Le stelle non sono cadute nel mare, come osservava sant’Agostino di fronte al sacco di Roma del 410, e dopo qualche ora di ignobile gazzarra eversiva l’ordine nella democrazia americana è stato ripristinato.

A prendere d’assalto Capitol Hill non sono stati i Visigoti del re Alarico che abbattevano con la furia organizzata di un esercito i simboli imperiali, ma un’accozzaglia bislacca di barbari malvissuti con le corna di plastica comprate da Walmart, i volti dipinti male, il pellicciame posticcio da finti pionieri di un’America immaginaria, gli smartphone sguainati per condividere su improbabili canali di comunicazione le fasi salienti dell’azione da guerra incivile.

Le immagini restituiscono un eterogeneo manipolo di unni in gita scolastica che trafugano gli amboni del Congresso sghignazzando, alcuni a torso nudo, altri in tenuta paramiltare, altri ancora con felpe con la scritta “6 milioni non erano abbastanza”, perché la tana oscura  dei QAnonisti è concepita per ospitare fobie e paranoie di ogni genere. Alcune istantanee della giornata sono spaventose, molte sono demenziali.

“We love you”

I protagonisti di quello che correttamente viene chiamato in inglese “mob”, orda, parola lontana dal vocabolario della protesta e della manifestazione, erano però dotati di armi vere e di vere intenzioni di offendere e danneggiare, ed erano tenuti insieme esclusivamente delle parole sediziose di Donald Trump, il quale riesce a sobillare anche nel messaggio in cui annuncia che ci sarà una pacifica transizione dei poteri presidenziali.

Il “we love you” di Trump è forse l’espressione più inquietante usata dal presidente dai tempi della “carneficina americana”, nel giorno dell’inaugurazione del 2017, che allora era intesa come una descrizione delle sofferenze in atto, e alla luce degli eventi recenti appare invece come una profezia.

L’analogia barbarica è dunque cedevole, e anche quella fascista è imperfetta. Come ha scritto il direttore dell’Atlantic, Jeffrey Goldberg, quello che è successo al Campidoglio non può essere spiegato adeguatamente con le sole categorie della politica: «Questo caos è radicato in fenomeni psicologici e teologici, intensificati da un’ansia escatologica».

Defecare sulla democrazia

L’orizzonte ultimo della vicenda, insomma, è l’apocalisse, ma la sua espressione concreta è un’orgia dell’imbruttimento che non ha nemmeno la dignità tragica di un colpo di stato, è un inconcludente defecare sulle istituzioni della democrazia americana e su tutto ciò che rappresentano.

Già, ma cosa rappresentano? Qui la questione si fa più complicata, e riacuisce la grande disputa sulla natura dell’esperimento americano che fa da sfondo anche a questo sconcertante episodio. I facinorosi aizzati da Trump sono una degenerazione dell’America o un suo prodotto naturale? Sono un’occasionale deviazione dai suoi ideali o l’esito in fondo inevitabile di insanabili contraddizioni interne?

Nel suo discorso ad insurrezione in corso, impeccabile nei toni, il presidente eletto Joe Biden ha preso una posizione chiara: le scene del Campidoglio «non rappresentano la vera America», che è stata a lungo «il faro e la speranza della democrazia» con i suoi «rituali sacri» e lo sguardo rivolto al «bene comune».

«Decenza, rispetto e tolleranza: questo è ciò che siamo, e questo è ciò che siamo sempre stati», ha detto, pescando a piene mani nel repertorio linguistico dell’eccezionalismo americano, quella lunga tradizione che attribuisce all’America un ruolo morale e un compito storico salvifico che nessuna caduta o tradimento potrà mai cancellare.

A muovere obiezioni a questa idea non sono soltanto i suprematisti bianchi risvegliati da Trump o gli etno-nazionalisti che rifiutano l’immagine universalista del paese multiculturale e ospitale, ma anche chi crede che gli ideali fondativi degli Stati Uniti siano falsi, e che il paese sia in realtà una slavocrazia costruita su oppressione, discriminazione, sfruttamento e razzismo, tutte cose che infatti vengono definite “sistemiche”, cioè caratteristiche intrinseche del sistema.

Terra promessa o regime razzista

Il paese è diviso fra chi crede che gli Stati Uniti siano nati con la dichiarazione d’indipendenza del 1776 e che chi ritiene che il vero atto fondativo sia l’arrivo della prima nave carica di schiavi africani sulle coste della Virginia nel 1619; una parte è convinta che i peccati storici dell’America possano essere espiati e superati - e anzi questa capacità di superarsi è proprio il tratto essenziale dell’eccezionalismo -  l’altra ribatte che quei peccati sono originali e il loro germe inestirpabile, dunque nel presente non ci sono piaghe da sanare, ma solo strutture da abolire.

A seconda delle visioni, l’America è l’imperfetto punto di riferimento della democrazia universale o un brutale regime imperialista, un’isola di libertà e prosperità o il regno spietato del neoliberismo, una terra promessa o un regime razzista, l’evangelica città sulla collina o una dépendance dell’inferno. Questo è il dibattito che fa da sfondo all’inquietante assalto del Capitol Hill.

Non si tratta di lievi divergenze su uno spartito comune, ma di contrapposizioni decisive intorno alla natura stessa dell’impianto americano. I quattro anni di Trump sono stati un percorso accelerato di de-sacralizzazione delle funzioni e dei simboli del potere esecutivo in precedenza ammantati di un valore quasi religioso; l’insurrezione di Washington, con le bande di sgherri che si fanno i selfie sugli scranni dei leader del Congresso, completa idealmente la trama dissacrante, portandola nella casa dei rappresentanti del popolo.

E per quanto sia l’opera di una minoranza esagitata, non sono in pochi a riconoscersi nella pulsione insurrezionale: secondo un sondaggio YouGov, il 45 per cento dei repubblicani approva con convinzione l’azione eversiva, e soltanto il 27 per cento crede che si tratti di una minaccia per la democrazia. La dialettica sulla quale questa vicenda s’innesta è anche più profonda di un difficoltoso passaggio del potere e del delirante protagonista di un episodio inqualificabile.

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