Sono passati solo quattro anni dalla primavera del 2020 in cui il mondo, colpito dalla pandemia di Covid-19, ha smesso di girare.

Eppure la percezione di uno shock epocale, destinato a cambiare per sempre i discorsi e le prassi della politica, sembra ormai del tutto affievolita, superata nella narrazione pubblica da nuove urgenze, emergenze, paure.

Il recente appello per salvare la sanità pubblica, sottoscritto da autorevoli scienziati, tra cui il Nobel per la fisica Giorgio Parisi, e volti divenuti celebri al grande pubblico come Franco Locatelli, dà la misura dell’esaurirsi dell’unità di intenti intorno alla difesa delle infrastrutture per la salute come bene comune.

Appelli inascoltati

Il Servizio sanitario nazionale che – ricordano i firmatari – ha contribuito a produrre un aumento di dieci anni nell’aspettativa di vita nell’ultimo mezzo secolo, e che ha rappresentato l’unico argine concreto, per quanto fragile, contro i decessi di massa nella pandemia, si trova oggi afflitto dagli stessi cronici problemi di sottofinanziamento del recente passato.

Perché, ci si può chiedere, non è bastata la sofferenza delle vite perse, dell’isolamento, della discontinuità educativa e lavorativa, a determinare un’inversione di rotta in un lungo corso di disinvestimento nelle infrastrutture pubbliche per il benessere?

E cosa rimane, a distanza di pochi anni, dell’appello pubblico alla solidarietà a cui intere popolazioni si sono mostrate capaci di rispondere?

Il virus della guerra

Se lo è chiesto anche il politologo David Runciman in un articolo di alcune settimane fa su The Guardian, in cui suggerisce che, anziché produrre un cambiamento in meglio, il Covid abbia in realtà infettato la politica, provocando destabilizzazione e corruzione. Soprattutto, guerra.

La speranza che l’intervento governativo su vasta scala messo in campo in molti paesi per far fronte alla minaccia collettiva potesse tradursi in un nuovo modello sociale, analogamente a ciò che avvenne in Europa dopo le due guerre mondiali, o in un nuovo impegno contro un’altra grande minaccia collettiva come la crisi climatica, sembra definitivamente infranta.

E la ragione è, secondo Runciman, che la battaglia contro il Covid è stata pensata e combattuta nei termini e sul modello di una guerra.

Come una guerra, è stata giustificata da eccezionale urgenza, lasciando in eredità, nel suo esaurirsi, non un senso di nuova possibilità, ma solo una mentalità predisposta alla guerra stessa, quella vera.

Pandemia di malessere

Per molti cittadini e cittadine, d’altra parte, il sacrificio collettivo ha lasciato il posto a un senso di insoddisfazione e frustrazione, specialmente di fronte al crescente costo della vita. E questo spiega in parte il successo di vecchi e nuovi leader populisti.

Sul New York Times, Lisa Lerer, Jennifer Medina e Reid J. Epstein parlano di un «malessere pandemico» che avrebbe infettato la politica americana, da spiegare anche con la fatica ricaduta sulle spalle delle persone dopo gli sforzi collettivi per sconfiggere il virus.

Trombe di guerra

Gli assegni familiari non rinnovati, gli investimenti per la cura dell’infanzia esauriti, i prestiti studenteschi sospesi durante l’emergenza e ora da ripagare.

Tutto questo crea un clima paradossalmente favorevole a Donald Trump, che diede prova allora di grave irresponsabilità, anziché a Joe Biden, che ha gestito la fase postpandemica.

Tutto, negli anni del Covid, avrebbe potuto predisporre a un cambiamento strutturale nelle politiche pubbliche per la salute e il benessere sociale.

Tutto, invece, ha preparato alla guerra. Che resta, a quanto pare, anche in Italia, l’unica vera eredità di quello shock.

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