La suggestione intellettuale posta dal direttore di Domani – quella che lui definisce scommessa sulla “vocazione minoritaria”– merita qualche riflessione. L’interrogativo che Stefano Feltri ci pone, ovvero dobbiamo abbandonare il modello maggioritario per tornare a vincere, è -se vogliamo- il cuore della riflessione politica di questo congresso.

Dentro la stagione del “lungo inverno”, per riprendere l’immagine di Federico Rampini, nel quale i partiti misurano il proprio deficit di analisi e di proposta davanti a vicende storiche tanto grandi quanto impellenti (la guerra, lo shock energetico, il cambiamento climatico, gli squilibri demografici, le pressioni migratorie, il confronto-scontro tra democrazie e autocrazie), si racchiude una stagione di stagnazione politica dei riformisti e progressisti italiani.

Quando i fenomeni che abbiamo davanti sono tanto complessi, e gli eventi spesso nefasti, il rischio più facile è quello del rinserramento. «Abbiamo perso le elezioni perché abbiamo perso il nostro popolo»,  si sente dire, e si risponde con l’esigenza di un recupero fortemente identitario nella proposta politica che non ha però il pregio della freschezza delle idee, quanto la stanchezza del nascondimento nelle rendite di posizione politiche e intellettuali.

E ci vuole così un intellettuale come Aldo Schiavone a scuoterci dalle nostalgie, quando declama al tempo stesso che il compito della sinistra è sia quello di declinare in modernità gli antichi concetti di uguaglianza e fraternità sia di comprendere che gli strumenti inventati nel passato per raggiungerli (ivi compreso il Socialismo) sono ormai logori, spenti e inservibili.

Serve a poco predicare le magnifiche e progressive sorti del ritorno alla placenta novecentesca del sol dell’avvenire, quando essa non dice più nulla a coloro che per primi dovrebbero sentirsi attratti -per condizione sociale, bisogni materiali, dinamiche lavorative- dalla esigenza del riscatto sociale.

Né può bastare, come surrogato, una agenda piegata sui diritti civili ripetuti come un mantra tibetano, perché da soli essi non fanno una proposta politica che parla al paese, ma rischiano di alimentare una dinamica minoritaria e settaria.

Dentro questa dinamica, l’esaltazione della “vocazione minoritaria” all’insegna della purezza identitaria (o ideologica?), fa deragliare il Pd dalla grande questione storica di questi anni.

La relativizzazione  ed emarginazione della politica dalle nostre società, lo svuotamento dei partiti e la personalizzazione della vita politica ha prodotto in grandi strati di popolazione una disaffezione, una frustrazione ed una crisi di rigetto verso la democrazia.

Per recuperare a questo sbrego, e dare risposte nella stagione del “lungo inverno”, un partito deve recuperare la capacità di parlare alle due polarità ricordate in passato da Albert Hirschman: passioni e interessi.

La democrazia, attraverso queste due declinazioni, ha parlato a intere generazioni, oggi stanche e deluse, anche a causa di troppi trasformismi e gattopardismi anche nostri. 

E’ troppo pretendere che un partito che si chiama “Democratico” imbracci la bandiera valoriale della democrazia, rinunci a chiudersi nello spicchio di una specifica nicchia socio-culturale e guidi il processo di riconoscimento dei cittadini affinché comprendano che solo con la Democrazia esistono libertà e giustizia sociale?

E’ per questo che il nostro destino è quello di essere "Democratici”,  coloro che credono che è solo con la democrazia – senza aggettivi – intesa come autogoverno di donne e uomini che si vogliono liberi e si riconoscono uguali si possono declinare le passioni di domani e dare risposte agli interessi della società.

E’ per questo che il Pd deve parlare a tutti, interpretare dentro le proprie corde ideali una prospettiva di governo, e rifuggire la tentazione del settarismo.

E’ per questo che serve un recupero della capacità di aprirsi, dialogare e proporsi a tutti, che non significa la pretesa dell’autosufficienza o l’orgoglio stupido dell’autarchia. Nella politica, la capacità coalizionale è, da De Gasperi in po,i una cifra della cultura di governo.

Ma essa si realizza sulla chiarezza politica, e sulla capacità di esercizio della leadership, e non sulla subalternità minoritaria, soprattutto se declinata culturalmente e politicamente verso chi non ha nulla a che vedere con l’idea di un centrosinistra moderno (perché debito pubblico e assistenzialismo non possono essere i perni del nostro futuro).

Le timidezze, le ambiguità, gli errori del passato non sono un alibi per fuggire, quanto la conferma dell’esigenza di porre mano alla costruzione dell’edificio. Facciamolo insieme, iniziando da domenica

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