A Pristina, capitale del Kosovo, ci sono una via Bill Clinton e una statua di bronzo alta tre metri e mezzo che raffigura l'ex presidente degli Stati Uniti. Clinton come santa madre Teresa di Calcutta, la figlia più illustre di quella terra. Clinton eroe dell'indipendenza del Paese, sancita nel 2008 ma favorita dall'intervento militare della Nato contro la Serbia (1999) su forte spinta americana. Sino ad allora il Kosovo era una provincia della Serbia abitata in maggioranza da albanesi.

La guerra si chiuse con l'adozione della risoluzione 1244 delle Nazioni Unite che autorizzava la presenza di soldati internazionali nell'area e rimandava a un accordo tra Serbia e Kosovo la definizione dello status finale di quest'ultimo. Intesa impossibile e dunque Washington forzò la mano. Per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale i confini venivano cambiati con un conflitto. C'era sì il precedente delle secessioni nella ex Jugoslavia, ma allora si era adottato il criterio di tenere per buone le frontiere delle Repubbliche che la costituivano come del resto prevedeva un articolo della Costituzione.

Bill Clinton dovette rendersi conto del passo incauto se si affrettò a precisare che il Kosovo non doveva “costituire un precedente”, e l'eccezione era giustificata dalla necessità di porre fine alla pulizia etnica dei serbi sugli albanesi. Dopo la caduta del muro di Berlino, due dei principi stabiliti alla Conferenza di Helsinki del 1975 per dirimere le controversie internazionali, inviolabilità delle frontiere e autodeterminazione dei popoli, erano entrati in rotta di collisione.

E si era deciso di tenere per buono il primo per non scoperchiare il vaso di Pandora dei nazionalismi, la nascita di patrie basate sull'appartenenza etnica. Tutto l'opposto di quello che rappresentano gli Usa stessi, esempio di multietnicità. Ma perché Clinton si era speso per una causa che contraddiceva l'idea fondante del suo luogo di nascita? A pensar male, diceva quello, si fa peccato, però... Sta di fatto che, nel Kosovo, al confine della Macedonia del Nord, sorse “Camp Bondsteel” la più grande base americana costruita dopo il Vietnam, da dove controllare tutto l'Est Europa e non solo.

La Russia per la fratellanza panslava con i serbi, la Cina per opposizione agli Stati Uniti, non hanno mai riconosciuto il nuovo Stato. Al contrario dei Paesi occidentali pur con qualche significativa eccezione. Su tutte quella della Spagna, timorosa che il “precedente” potesse essere d'ispirazione per le tentazioni separatiste dei baschi o dei catalani: la storia si è peritata di dimostrare quando l'apprensione fosse giustificata.

Del “precedente” che non doveva essere tale si è appropriato soprattutto Vladimir Putin. Se i kosovari albanesi avevano il diritto di autodeterminarsi perché la stessa cosa non doveva valere per i russi finiti ad abitare fuori dalla Russia dopo l'implosione dell'impero sovietico? Così ha finito per giustificare il suo diritto a intervenire in Ossezia del Sud (2008), l'annessione della Crimea (2014), e le stesse pretese sul Donbass russofono. I suoi ambasciatori durante le trattative per gli accordi di Minsk proprio sul tasto del Kosovo continuavano a battere.

Né è diversa la situazione nei Balcani dove tutto è cominciato se resiste, 30 anni dopo i conflitti degli Anni Novanta, la tentazione di costruire nazioni etnicamente “pure”. I serbi di Bosnia vorrebbero, via referendum, secedere da Sarajevo per riunirsi alla madre patria. Così i croati di Erzegovina. E, nello stesso Kosovo, è un tripudio di bandiere albanesi che alludono a un futuribile ricongiungimento con Tirana. Il Kosovo, primo tassello di un effetto domino.

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