Kosovo: la situazione è ancora quella di oltre 20 anni fa. Nel giugno 1999, dopo i bombardamenti di Belgrado, al termine della guerra il Kosovo era semivuoto: all’inizio dei combattimenti gli albanesi erano stati cacciati dai serbi verso l’Albania, andando a concentrarsi poco oltre la frontiera nei campi attorno a Kukes. Dal canto loro i serbi del Kosovo erano fuggiti dopo la resa serba. Restavano solo i monaci dei monasteri (come Gracaniça, Deçani o Pec) e un po’ di popolazione nei comuni a maggioranza serba verso il confine, dei quali il più famoso è Mitroviça.

Quella fu la data di nascita della Kfor (Kosovo force) della Nato che doveva controllare il ritorno degli abanesi, il rispetto della tregua, disarmare l’Uck kosovara, ristabilire l’ordine e proteggere la minoranza serba fino alla stipula dell’accordo politico definitivo. A Mitroviça e nei comuni a maggioranza serba la situazione fu subito seria: da una parte del fiume Ibar stavano i serbi, dall’altra i kosovari albanesi. In mezzo i nostri carabinieri a interporsi. E appunto la Kfor. Da allora tutto è rimasto immobilizzato, ingessato: non c’è stato alcun accordo politico.

La Serbia ha accettato la sconfitta militare contro la Nato ma non ha mai riconosciuto la legittimità del Kosovo, cioè la sua esistenza. In questo modo Belgrado si oppone al suo riconoscimento internazionale in sede Onu e blocca la sua adesione ad ogni altra organizzazione internazionale. È noto che non basta autoproclamarsi indipendenti come ha fatto Pristina nel 2008: serve il consenso internazionale (secondo interpretazioni variabili, è necessario ottenere almeno i due terzi dei 193 stati delle Nazioni Unite). Non c’entrano le ragioni o i torti: si tratta di una questione di regole internazionali. La comunità internazionale è costruita sugli stati-nazione: per essere riconosciuti è necessario il consenso dei propri pari, senza il quale non c’è indipendenza reale o completa.

È questo il caso del Kosovo, attualmente riconosciuto da circa 100 stati nel mondo. Anche nell’Unione Europea cinque Stati membri non lo riconoscono (Spagna, Cipro, Grecia, Slovacchia e Romania) a dimostrazione della delicatezza della questione. Se Belgrado accettaste di riconoscere l’indipendenza di Pristina, sarebbe facile ottenere gli altri voti, ma questo non è avvenuto in venti anni di dialoghi intermittenti. Ancora oggi per le strade di Belgrado ci sono enormi striscioni che recano la scritta “La Serbia senza Kosovo è come un corpo umano senza cuore”.

Per i serbi nazionalisti ora al governo, ma anche la maggioranza dei serbi in generale, il Kosovo è la culla della nazione: il patriarcato serbo ha la sua sede principale a Pec in pieno Kosovo e molte battaglie storiche per i serbi si sono svolte su quelle terre. Per serbi si tratta di una questione di principio che sale dalla storia a causa del prezzo pagato per la resistenza all’avanzata turco-ottomana, che i serbi fecero come nazione cristiana. Tale difesa – ripetono spesso – protesse tutta l’Europa.

Questione etnica

La lettura della storia che i serbi fanno è molto condizionata dal passato medievale e dalle vicende balcaniche, stretti tra imperi austroungarico e ottomano. Dal canto loro i kosovari abanesi hanno maturato un forte risentimento antiserbo che gli viene dall’essere stati trattati come cittadini di serie b durante il regno e poi la repubblica di Jugoslavia. Dal momento che il termine Jugoslavia significa “stato degli slavi del sud”, essi rivendicano di non essere slavi (come invece i croati, i macedoni, i serbi, gli sloveni, i bosniaci ecc.).

Per tali ragioni al momento dell’implosione della Jugoslavia, speravano di poter liberarsi da tale legame. Ma i serbi non hanno voluto. Qualcuno pensava alla grande Albania: riunirsi con gli albanesi di Tirana. Ma Ibrahim Rugova, il padre del Kosovo indipendente, voleva staccarsi dai serbi in maniera pacifica per fondare quella che chiamava la “Dardania”, l’antico nome della regione sotto l’impero romano. Per lui i kosovari erano i discendenti degli Illiri. Purtroppo poi venne la guerra ma ciò che può sorprendere è che tutto sia rimasto fossilizzato alla situazione del 1999. Nessuno dei due contendenti vuole ridisegnare i confini (una soluzione talvolta proposta), né condividere la sovranità, né tanto meno rinunciare ad una parte di essa.

Gli ultimi colloqui di Bruxelles mediati dalla Ue hanno avuto il merito di mettere sul tavolo tutti i problemi ma senza risolvere: la firma di un accordo costituirebbe una forma di riconoscimento da parte serba. Risultato: si elencano i temi, si discutono soluzione temporanee ma non si va fino in fondo. Dal canto loro i kosovari vorrebbero chiudere la questione portando i serbi del Kosovo a riconoscimenti de facto: da qui la questione (che a noi sembra così futile, ma non lo è) delle targhe automobilistiche che ha riacceso la tensione dall’agosto scorso fino ad oggi. Se i serbi accettassero di cambiare le targhe montando quelle kosovare, riconoscerebbero indirettamente l’autorità (e quindi la sovranità) kosovara. Alcuni mesi fa si è giunti all’attuale stallo che ha provocato un ritorno indietro rispetto ai pochi sviluppi positivi di questi anni, come le elezioni dei sindaci nei comuni a maggioranza serba. Oggi si sono tutti dimessi per protesta.

Venti oltranzisti

Gli scontri in cui sono stati feriti soldati italiani e ungheresi della Kfor hanno coinvolto i serbi di uno di questi comuni che contestavano a causa della loro situazione, in realtà autoinflitta: si barricano dentro i propri comuni tagliandosi fuori da tutto. Belgrado e Pristina dovrebbero calmare gli animi ma in questo momento soffiano sulle due capitali venti oltranzisti. In una situazione molto polarizzata nessuno dei due governi ha la possibilità di mostrarsi cedevole.

Il clima creato dalla guerra in Ucraina ha aumentato la tensione generale, complici i tentativi russi di riacquistare influenza a Belgrado, anche se in realtà quest’ultima dialoga in maniera costante con Washington né vuole farsi coinvolgere in altre crisi. È probabile che l’unica soluzione oggi sia uno status quo che abbassi la tensione e rinvii la soluzione ad un momento meno convulso.

 

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