Sabato 18 dicembre in edicola, insieme al nostro giornale, troverai un inserto di 16 pagine tutto dedicato alla moda: fluida, inclusiva, libera, omologata, globale, insostenibile. Un viaggio attraverso le evoluzioni e le contraddizioni del frammentato universo della moda nell'epoca della grande influenza. Non perdertelo.


La moda è piacere estetico, desiderio di distinguersi e indice di appartenenza, ed è vecchia quanto la civiltà. Ma è sempre stata anche un’attività economica, che da artigianale si trasforma in industriale con l’avvento del brand: il capitale immateriale che identifica un bene più della sua qualità intrinseca e costituisce gran parte del valore dell’azienda che lo produce.

Per analizzare i possibili scenari della moda è utile guardare ai titoli quotati, anche se non esauriscono le realtà del settore (si pensi ad Armani): i mercati azionari incorporano infatti le aspettative e sono dunque una chiave per capire le tendenze future.

I titoli del settore “abbigliamento e calzature” quotati nelle Borse dei paesi del G8 più Hong Kong con una capitalizzazione superiore a 1,5 miliardi di euro hanno un valore complessivo di 1.300 miliardi, più o meno quanto il Pil della Spagna. Nella percezione dei consumatori il settore è diviso in due segmenti: l’abbigliamento sportivo o casual (brand come Nike o Levi Strauss) e il “lusso” (le grandi “maison” dell’alta moda). 

Più prosaicamente la distinzione è data dal prezzo medio dei beni venduti.  Dal punto di vista dimensionale, i due segmenti in Borsa sono simili: il lusso conta per il 63 per cento della capitalizzazione e il 53 del fatturato del settore. 

Molto capitale per lo stesso fatturato

Sarebbe però un errore pensare che l’investimento nel lusso renda di più perché i prezzi sono più alti, anzi è vero il contrario: per esempio, è vero che le cinque società che producono i principali brand sportivi (Nike, Puma, Adidas, Levi Strauss, Vf) hanno in media margini più bassi rispetto alle società del lusso (in media 12 per cento nel 2021, contro il 17), ma un rendimento sul capitale molto più elevato (34 per cento contro 14), segno che il lusso richiede una maggiore intensità di capitale, ovvero ci vuole molto più capitale per generare lo stesso fatturato, che non è compensato dai maggiori margini.

Il segmento del lusso è prevalentemente europeo: delle quindici società analizzate del settore solo quattro sono americane (Pvh-Calvin Klein, Ralph Lauren, Tapestry-Stuart Weitzman, e Capri Holding-Michael Kors/Jimmy Choo), e nessuna è asiatica.

Il ruolo dell’Italia è dominante non solo per numerosità di società, ben cinque su quindici (Prada, Brunello Cucinelli, Tod’s, Salvatore Ferragamo, Moncler a cui si aggiungerà Ermenegildo Zegna che si quota a Wall Street) ma per la capacità di creazione dei brand, o maison, molti dei quali acquistati dai tre grandi conglomerati del lusso, Lvmh, Kering e Richemont (due francesi e uno svizzero): Gucci, Bottega Veneta, Brioni, Pomellato, DoDo, Bulgari, Loro Piana, Etro, Pucci, Fendi, Acqua di Parma, Repossi, Buccellati, Panerai, oltre a Versace che fa parte di Capri Holding.

Eccelliamo dunque nella creazione di marchi, molto meno nella capacità di gestire e far crescere le società. Tanta creatività, poche capacità manageriali.

Piccolo non è bello

 Imaginechina via AP Images

La dimensione è diventata un elemento cruciale. Il lusso richiede grandi investimenti per attirare talenti, creare catene di produzione e logistica globali, reti di negozi e anche distribuzione digitale; oltre a permettere la diversificazione del rischio attraverso un portafoglio di brand: il valore di una singola maison può infatti mutare rapidamente col cambiare di gusti e preferenze.

Bisogna poi considerare la differente dinamica delle varie tipologie dei beni di lusso: scarpe, gioielli, liquori, profumi, vestiti, accessori, orologi hanno diverse fortune in momenti e paesi diversi.

Così, se ai tre grandi conglomerati si aggiunge la notevole eccezione di Hermes, che capitalizza 167 miliardi pur essendo una maison singola, si vede che i quattro grandi hanno mediamente margini del 27 per cento contro il 17 medio del settore lusso, con una redditività sul capitale del 18 rispetto al 13 del settore.

I rumors circa una possibile fusione tra Kering e Richemont per competere con Lvmh vanno in questa direzione. La crescita dimensionale, soprattutto attraverso aggregazioni, appare quindi come una strada obbligata se non vogliamo che i grandi gruppi stranieri continuino a creare valore alle spalle della creatività dei nostri imprenditori del settore.  

Come per i grandi gruppi tecnologici, il valore di una società del lusso è in gran parte costituito da capitale intangibile. Infatti i multipli di valutazione delle quattro big non si scostano di molto da quelle del Nasdaq con un rapporto prezzo/utili quasi identico (31 e 32) e un rapporto prezzo/patrimonio appena inferiore (7 rispetto a 9).

Multipli che indicano, come per la tecnologia, attese per una crescita degli utili e una redditività elevate. Ma anche un segno di maggiore rischiosità per gli investitori. Per il lusso ne vedo quattro: la Grande Cina; la digital economy; il post Covid e l’economia sostenibile. 

Cina e Asia rappresentano il 59 per cento del fatturato di Hermes, il 44 di Lvmh, il 45 di Kering e il 52 di Richemont. Il rallentamento strutturale della crescita cinese e di altri paesi asiatici, il rapido invecchiamento della popolazione che aumenta la domanda di welfare, la nuova politica sociale cinese del “bene collettivo” e la critica alla società dei consumi rappresentano la prima grande incognita per il lusso di cui è difficile prevederne la portata a lungo termine, ma è chiaro che sarebbe rischioso estrapolare il trend del passato. 

La digital economy stravolge le relazioni fisiche che hanno caratterizzato l’umanità. La moda ha sempre avuto, al proprio centro, l’esperienza fisica della persona: le sfilate, gli show room, i negozi sontuosi, il contatto con il bene da comperare, l’interazione con il venditore. Il graduale passaggio alla rete, che per molti è un’opportunità, per la moda è un rischio.

Perché ogni società dovrà costruirsi la propria rete digitale in parallelo a quella dei negozi tradizionali, con duplicazione dei costi, e grandi investimenti nella logistica e nella tecnologia. Iniziative nel digital marketplace del lusso, come Yoox, poi fusa con Net à Porter, non sono mai riuscite a decollare, e il suo azionista Richemont vorrebbe ora venderla al concorrente Farfetch, che quest’anno è la prima volta in utile dopo cinque anni in perdita. 

Effetto virus

Il terzo rischio è il post Covid. Non sappiamo ancora le implicazioni di lungo termine sulla mobilità (e le conseguenze, per esempio, per i duty free shop), sulle abitudini di spesa – per esempio sui grandi spazi commerciali – sulla struttura delle filiere di produzioni e la logistica che vede il lusso particolarmente esposto, data la grande dispersione geografica della fornitura delle materie prime, design, fasi di produzione e commercializzazione.

Infine la domanda di sostenibilità è al tempo stesso un’opportunità e un rischio. Un’opportunità perché il cliente del lusso tende ad avere una maggiore sensibilità per l’economia sostenibile; un rischio perché le produzioni sostenibili hanno anche un costo maggiore che deve essere traslato a valle, con un aumento dei prezzi, per mantenere i margini.

Anche per l’Italia il futuro del lusso è un’opportunità e un rischio: un’opportunità per valorizzare la nostra creatività, ma anche un rischio se saremo carenti, come in passato, di capacità manageriali.
 

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