Le immagini di Margaret Keenan, prossima ai 91 anni, e del secondo William Shakespeare più famoso del mondo, 81 anni già compiuti, che ricevono per primi il vaccino per il Covid-19 hanno emozionato e commosso il mondo, e non solo perché la benefica iniezione che hanno avuto la ventura di ricevere rappresenta simbolicamente l’inizio della fine di una pandemia che, come dice la parola, riguarda tutti. In quei corpi fragili c’è anche un certo senso di rivincita nei confronti di un virus che si accanisce con particolare ferocia proprio sugli anziani, sui più deboli.

Un osservatore razionale potrebbe però spegnere d’improvviso l’incanto di questo bel quadretto emotivo con alcune domande: ha senso vaccinare per prime persone che hanno ormai la gran parte della vita alle spalle? A cosa serve dare l’immunità a chi è già esposto alla malattia non vaccinabile del tempo? Non sarebbe più ragionevole cominciare da chi ha il futuro davanti a sé e magari nel presente contribuisce alla produttività?

Un principio diffuso

Dietro al velo di cinismo dei quesiti, che nel mezzo delle sofferenze e degli sconquassi esistenziali della pandemia ci appaiono odiosi e inaccettabili, c’è un principio utilitarista largamente diffuso nell’organizzazione generale della società contemporanea. I sistemi sanitari non solo non esulano dal principio, ma lo rappresentano più compiutamente di altri. Il sistema sanitario nazionale britannico che ha vaccinato Keenan e Shakespeare è costruito sull’idea della massimizzazione dei benefici come criterio fondamentale per l’allocazione di risorse che, ovviamente, sono limitate.

Nella pratica, significa che le decisioni su quali cure finanziate dai contribuenti devono essere somministrate e quali negate sono riviste da un organo, il National Institute for Health and Care Excellence, che attraverso una rigorosa analisi di dati ed evidenze scientifiche disponibili traduce il valore sanitario della cura in termini economici. Un intervento che produce benefici per il paziente può essere negato se i calcoli del comitato dicono che quelle risorse sarebbero impiegate più efficacemente altrove.

L’unità di misura del computo è il “quality adjusted life year”, cioè un anno di vita in buona salute. Il sistema inglese calcola che ogni anno di vita che si prevede ragionevolmente di guadagnare attraverso un intervento medico non deve costare più di 33mila euro. Se costa di più, il sistema sanitario nazionale non lo autorizza. Questo è il «tipo di brutale calcolo utilitarista a cui chi fa i piani anti crisi del governo deve assolutamente pensare e di cui non deve assolutamente parlare», come ha detto una volta un consigliere dell’allora primo ministro laburista Gordon Brown.

Una opposta visione antropologica

Tutto questo per dire che le idee orientate alla massimizzazione dell’utilità informano già il normale funzionamento delle strutture e dei processi organizzativi che regolano la società. Ma quando l’emergenza ha colpito nella realtà, e non solo nell’universo astratto della modellizzazione statistica, molti di questi calcoli, che in una certa misura sono inevitabili e necessari, sono in parte saltati, lasciando il posto ad altre concezioni, ad altre priorità, ad altre considerazioni e valori che sono profondamente in tensione con i laceranti calcoli che i governi devono fare ma di cui non devono parlare.

Travolto da una tragedia di proporzioni devastanti, il mondo modellato anche dalle idee di Jeremy Bentham è stato sopraffatto da un certo umanesimo anti utilitario che s’industria per salvare quante più persone possibile senza curarsi troppo dell’aspettativa di vita, del prezzo degli anni guadagnati, della produttività, dei benefici misurabili che un individuo può ragionevolmente dare alla società.

Qualche paese nel calibrare la risposta al Covid-19 è rimasto fedele al verbo utilitarista, ad esempio la Svezia, dove in questi mesi non muoiono genericamente tante persone per il coronavirus, ma muoiono nello specifico soprattutto tanti anziani che sono stati preventivamente segregati in strutture apposite, figlie di una logica dello scarto che è a sua volta figlia dei calcoli brutali di cui sopra. Keenan e Shakespeare sono i simboli dell’affermazione di una opposta visione antropologica.

Hanno 91 e 81 anni, tutti auguriamo loro una vita ancora lunga e felice, ma è ovvio che non potranno aspettarsi di vedere chissà quanti altri natali; ed è proprio questo che rende commovente e nobile l’aver somministrato loro il vaccino subito. Li abbiamo protetti da una malattia insidiosa pur sapendo che potrebbero andarsene presto per cause naturali. Nel vaccinarli, tutti i calcoli che soggiaciono ai nostri sistemi sono saltati in aria: è un buon motivo per rallegrarsi.


 

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