Come è noto, dalle parti della destra si sconta qualche problema a ogni ricorrenza della festa nazionale del 25 aprile. Per converso, d’improvviso, da quel fronte ci si scopre puristi e severi custodi della data “sorella” del 2 giugno, festa della Repubblica.

Si è reagito polemicamente all’annuncio per quel giorno, da parte del Pd, di una mobilitazione contro le riforme costituzionali del governo e, in particolare, contro il “premierato assoluto”. Personalmente non comprendo le obiezioni. Mi spiego.

Intanto i promotori hanno avuto cura di precisare che tempi e luoghi della loro iniziativa saranno naturalmente distinti da quelli istituzionali unitari. Nell’unico incontro formale con il governo sulle riforme istituzionali, non una sola delle proposte avanzate dal Pd è stata raccolta: legge elettorale, sfiducia costruttiva, limiti alla decretazione d’urgenza, legge sui partiti, conflitto d’interessi.

A proposito di spirito unitario, non si può non osservare che chi lo contraddice nei comportamenti e sulla più alta delle materie – la Costituzione – sono semmai coloro che procedono unilateralmente al varo di riforme di singolare rilievo a colpi di maggioranza di governo.

Di più, all’insegna non di una visione e di un disegno comune neppure dentro lo stretto perimetro della maggioranza, ma di un mediocre baratto politico tra i tre partiti che la compongono: premierato (FdI), autonomia differenziata (Lega), separazione delle carriere dei magistrati (FI). Per inciso, tre partiti estranei alla cultura dei costituenti.

Autonomia differenziata

A ben vedere, premierato e dl Calderoli hanno ispirazioni opposte: un massimo di concentrazione/personalizzazione in capo alla persona del premier e un avallo a derive separatiste/secessioniste sul territorio nazionale.

L’opposto del traguardo di quel lontano 2 giugno nel quale, con la Repubblica, vinsero da un lato coloro che giudicavano anacronistica una visione dello stato al cui vertice stesse un sovrano (si volle una democrazia partecipativa di cittadini non più sudditi) e dall’altro quanti miravano a ricucire un paese reduce da troppe divisioni ideologiche e territoriali.

La circostanza del palese difetto di coerenza di visione nelle riforme patrocinate dal governo non ci esonera, ma piuttosto ci impone, di giudicare l’insieme di esse, la loro portata niente affatto minimalista; le insidie portate a principi ed equilibri cardine della Costituzione vigente: in particolare la separazione dei poteri, l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, la forma di governo parlamentare, che taluni studiosi considerano a tal punto coessenziale alla “forma repubblicana” non suscettibile di revisione costituzionale da concludere, non per paradosso, che il premierato assoluto prospettato dal governo rappresenti una “riforma costituzionale incostituzionale” in radice. Sino a chiedersi se vi sia modo di interpellare la Corte costituzionale a monte della sua approvazione.

Del resto, è espressamente dichiarato, da parte di Giorgia Meloni, il proposito di caricare il premierato – a suo dire «madre di tutte le riforme» – del senso/valore del passaggio all’alba di una nuova Repubblica, che enfatizza la discontinuità con la Repubblica disegnata dai “padri costituenti”. Quella originata appunto dal 2 giugno 1946.

Non è possibile fingere di ignorare la portata politica e metapolitica della sfida e ad essa non ci si può sottrarre. È significativa la circostanza che anche le ipotesi di mediazione avanzate da circoli bipartisan che pure, a mio avviso, sbagliano nel cedere nella sostanza alla medesima logica della democrazia d’investitura del premier, comunque non trovino accoglienza alcuna da parte dell’esecutivo.

Concezione plebiscitaria

Inutile perdersi nei tecnicismi: per Meloni ciò che è irrinunciabile è precisamente l’elezione popolare diretta del premier. Meglio: non solo la sottesa, palese concezione plebiscitaria della democrazia, ma più concretamente l’obiettivo/appuntamento del rito/plebiscito politico che, entro la legislatura, la incoroni madre della nuova Repubblica.

Comprendo che chi sta in parlamento non possa sottrarsi a una interlocuzione e avanzi controproposte e tuttavia tutto concorre ad alimentare un motivato scetticismo circa l’utilità del confronto con chi non sente ragioni. Se le cose stanno così, è bene attrezzarsi sin d’ora a un confronto-scontro referendario comunque inevitabile (nonché chiaramente ricercato da Meloni), confidando nella forza delle ragioni di chi contrasta l’affossamento di forma e sostanza della nostra Repubblica parlamentare.

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