La beatificazione dell’avvocato Gianni Agnelli nel ventennale della morte è finalmente culminata nella fluviale intervista del suo erede, il nipote John Elkann, ai due giornali di cui è proprietario, Repubblica e Stampa. Il fatto che non vedremo mai simili interviste sull’altro importante giornale di cui Elkann è padrone, l’Economist, ci dice già molto sul triste declino italiano. Come pure spiega tante cose lo spensierato indulgere in una celebrazione del nonno del tutto priva non solo di elementi critici, ma addirittura del sia pur minimo contributo informativo.

C’è un’Italia che si chiede se davvero l’uomo che ha dominato il paese per mezzo secolo fosse tutto questo genio e se un po’ dei problemi economici in cui siamo impantanati non sia da ricondurre a errori e responsabilità di quella generazione di condottieri del capitalismo. E lui risponde che invece va tutto meravigliosamente bene e quindi dobbiamo essere grati all’Avvocato. Lo dice davvero: «Il sistema ha rivelato una forte vitalità. Per il capitalismo familiare legato al territorio, che è grande parte del nostro tessuto economico, il ventennio che abbiamo alle spalle è stato positivo e ha saputo generare realtà made in Italy leader nel mondo».

C’è di positivo nel modo di raccontarsi di Elkann la totale assenza di ipocrisia. Non finge di dedicarsi al culto della responsabilità sociale dell’impresa, non finge di preoccuparsi della sorte dei suoi simili, dei suoi operai o della comunità nazionale. Per lui quello che conta è il successo suo e della sua famiglia, nella perpetuazione ostinata delle ossessioni di suo nonno che aveva come obiettivo non il benessere generale ma l’arricchimento personale, all’interno di una unica preoccupazione, la continuità dinastica.

Ci vuole coraggio

Ecco che all’improvviso gli fanno la domanda birichina su sua madre, Margherita Agnelli, unica figlia sopravvissuta all’Avvocato dopo il suicidio del primogenito Edoardo, che fa causa al figlio John, dopo averla fatta a sua madre Marella Caracciolo, perché contesta la divisione ereditaria del padre.

Il punto sollevato è se per caso Gianni Agnelli non abbia sbagliato qualcosa nel dettare le disposizioni testamentarie finalizzate a dare a uno e uno solo, John Elkann, il comando su una famiglia numerosissima. Qualche leggerezza? «Per nulla. Anzi, lui nelle sue disposizioni ha seguito lo schema che aveva già tracciato suo nonno». Ciò che ha fatto il trisnonno è per definizione la cosa giusta, ed è con questa cultura da vecchia aristocrazia terriera che la famiglia Agnelli da decenni insegna agli italiani a vivere.

I nonni sono grandi maestri, si sa. Ma da un nonno come Gianni Agnelli, che per mezzo secolo ha fatto e disfatto a suo piacimento ciò che voleva in Italia, usando le casse dello stato come bancomat per finanziare le sue aziende e quindi anche i suoi profitti, uno si potrebbe aspettare qualche dritta più sagace della media. Invece niente. Da lui il nipote ha imparato che «ciò che conta è andare avanti, non fermarsi. L’ottimismo di mio nonno nasceva dalla fiducia nell’individuo e nella sua libertà. Così io penso che con la libertà e l’impegno si può costruire il futuro». E mica è finita. Ecco la vera perla di saggezza: «Il vero insegnamento che il nonno ci ha trasmesso è l’invito ad affrontare le tempeste con coraggio e responsabilità».

Il racconto cerca di farsi avvincente. «Nel ‘45, con la scomparsa del senatore Agnelli subito dopo la guerra, tutto ciò in cui mio nonno aveva creduto è crollato. Lui, suo fratello, le sorelle e i cugini si trovarono davanti a una scelta radicale, impegnarsi nell’azienda o tirarsi fuori. Ci voleva coraggio, in quei momenti, ma scelsero l’impegno e continuarono». Ce ne voleva tanto di coraggio, soprattutto per il fratello, Umberto, che aveva 11 anni, mentre l’Avvocato, che di anni ne aveva 24, aspettò in realtà fino al 1966 per impegnarsi nell’azienda, impegnando il suo ventennio ruggente in un’inesausta attività di playboy internazionale che è stata la vera base della sua leggenda.

Sarà che la storia la scrivono sempre i vincitori ma non dev’essere bello per i disoccupati e i cassintegrati Fiat sentirsi dire dal padrone che le cose non sono mai andate così bene. Guai a dirgli che forse l’industria dell’auto in Italia non c’è più. Perché lui, essendo padrone anche dei giornali, oltre che di quello che resta della Fiat, ha l’ultima parola: «Se confrontiamo l’azienda del 2003 e quella di oggi vediamo che i ricavi passano da 22 miliardi a 130, i modelli di auto prodotti allora, che impegnavano 49 mila persone, erano 22, per 4 marchi; oggi 280mila persone producono oltre 100 modelli per 14 marchi». La magia è servita. Si prende la Fiat già boccheggiante lasciata dal nonno e la si confronta con l’attuale gruppo Stellantis, in cui è stata fusa la Fiat insieme alla Chrysler, alla Citroen e alla Peugeot.

Solo che tutti questi numeroni sono fuori dall’Italia. Nell’operazione Elkann ha salvaguardato solo la sua ricchezza personale. Nel frattempo a Mirafiori, fabbrica simbolo dell’auto italiana, si fanno ormai solo più meno di 100 mila auto all’anno, un terzo di quelle che si fabbricavano nel 2003.

La Fiat era allora il quinto costruttore di auto al mondo, oggi in Italia si fanno meno di 700 mila auto all’anno, un terzo di quante se ne facevano 30 anni fa. Siamo il ventesimo produttore di auto al mondo, superati anche da Thailandia, Turchia e Indonesia, ed Elkann però è felice: «Siamo il più grosso azionista di Stellantis, io sono il presidente esecutivo».

Beffa finale: questo fondersi in un grande gruppo mondiale e sparire dall’Italia secondo il nipote è il coronamento del sogno del nonno: «Siamo andati nella direzione che già mio nonno aveva intrapreso». Detto di un uomo che per tutta la vita ha ostacolato i suoi manager che cercavano integrazioni internazionali (loro sì che vedevano il futuro) perché non voleva perdere il controllo della ditta che gli aveva lasciato il nonno.

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