A cosa può assomigliare un piano Mattei italiano sull’Africa? La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha parlato di un “piano Mattei” per il continente africano, sia per rispondere alle sue necessità di sviluppo che per reagire ai flussi migratori, in specie quelli non regolati.

L’Italia ha un suo approccio che dura, pur in maniera discontinua, da circa 10 anni: negoziare con i paesi di transito perché trattengano i migranti. Nel caso del Niger il piano funziona; non in quello della Libia dove anzi ha spinto le nostre autorità ad accordarsi con capi-milizie o oscuri gestori di traffici.

Il problema dei negoziati paralleli

Questo non andrebbe mai fatto, non solo in termini di etica politica, ma anche perché prima o poi – come si vede - diventa un boomerang. La differenza tra Niger e Libia è facile da capire: laddove esiste uno stato, anche se fragile, abbiamo un interlocutore possibile: è il caso nigerino, come anche tunisino o, nel passato, albanese.

Se al contrario lo stato è esploso ed è scomparso, non è possibile (anzi è sconsigliabile a medio-lungo termine) trattare con la miriade di soggetti illegali e armati che ne hanno preso il posto. Nel suo recente passaggio a Roma il presidente del Niger Mohamed Bazoum ha chiarito che va fatta una distinzione tra le politiche migratorie e quelle di sviluppo.

«L’idea che possano bastare investimenti europei per portare allo sviluppo e bloccare i migranti è irrealistica» ha detto Bazoum. «Lo sviluppo dell’Africa è qualcosa di assai più complesso del tema migratorio».

Ciò che si può fare subito – prosegue conversando con il direttore di Repubblica Maurizio Molinari: «È un accordo basato sul numero di africani dei quali ogni paese europeo ha bisogno per il suo mercato del lavoro. Bisogna stabilire questi numeri, paese per paese, e poi farli rispettare». È ciò che non si è riusciti a fare fino ad ora ma che le varie confindustrie europee chiedono da tempo, non solo nei confronti dell’Africa. Ormai è chiaro a tutti il problema della decrescita demografica europea.

Certamente c’è anche un tema di concorrenza interna europea: ogni paese vorrebbe per sé la parte migliore, cioè i migranti più formati e specializzati e ciò non è sempre facile da ottenere. A dire il vero non è nemmeno auspicabile: impoverirebbe l’Africa ancor di più, drenando cervelli e aggravando la spirale povertà/emigrazione.

L’idea di formarli a casa propria deve spingere invece gli europei a migliorare il proprio sistema educativo pubblico, oggi in difficoltà un po’ ovunque (e addirittura crollato in Africa). Cosa si può fare dunque per lo sviluppo dell’Africa, così complesso come sostiene il presidente Bazoum? Innanzi tutto c’è da comprendere che l’Africa non può essere trattata come un unicum: vi sono paesi diversi con economie diverse e differenti possibilità di crescita.

Il piano Mattei italiano deve tenerne conto. In secondo luogo è necessario aggiornare il nostro sguardo sul continente, che non è più quello di vent’anni o anche dieci anni fa. In Africa si sta svolgendo una grande battaglia economico-commerciale, solo parzialmente rallentata dalla pandemia: un triangolo di influenze tra Cina, Europa e Usa, che potrebbe anche dirsi quadrangolo se si conta la Russia in piena ripresa di influenza soprattutto dopo il 24 febbraio scorso.

I poteri politico-commerciali più avveduti (sia pubblici che privati) sanno che nel continente nero sono nascoste enormi risorse in termini di acqua, terra, minerali ed energia. Si tratta di risorse preziose che nel prossimo futuro diverranno anche uniche. Occorrono tuttavia molti investimenti per sfruttarle e oggi gli unici a possedere sufficiente liquidità sono i cinesi e gli arabi del Golfo.

La terra coltivabile

Un esempio di business del futuro è quello agricolo: l’Africa è ancora un continente dove rimane tanta terra coltivabile libera (si calcolano 200 milioni di ettari, fatte salve le foreste che non andrebbero toccate). È opinione generale che per nutrire il pianeta ci sarà assoluto bisogno di valorizzare tale “oro verde” ormai raro.

Ai fini dello sviluppo africano, il land grabbing attuale messo in atto dalle multinazionali del food o da alcuni paesi, invece di aiutare favorisce il deperimento dell’intera filiera. Manca infatti la cosa più importante: il coinvolgimento (per ora marginale) degli africani locali.

Puntare solo su monoculture da esportazione è il solito errore di prospettiva che crea dipendenza e nessuno sviluppo duraturo. Come in ogni altro settore, se si vuole davvero favorire lo sviluppo africano almeno una parte della trasformazione deve essere fatta in loco: è questo il vero asset paritario di cui ha parlato anche Meloni. Tuttavia ciò implica una fase transitoria: creare in Africa un’industria di trasformazione (sia di materie prime agricole che minerarie) costa tempo e denaro, mentre il mercato globale ragiona in termini diversi.

Eppure c’è a termine in innegabile vantaggio win-win, cioè per entrambi. Se ad esempio, il settore agro-business italiano si organizzasse (si tratta di migliaia di Pmi) per fare un’offerta aperta a tale “Africa verde”, ne trarrebbe l’incomparabile vantaggio di internazionalizzarsi mentre gli africani otterrebbero know-how e tecnologia.

Le nostre piccole e medie imprese sarebbero molto più accettate dagli africani che non i colossi anonimi, come Nestlé, Danone ecc., coi quali è duro negoziare. Si tratterebbe di insegnare a produrre e creare catene del valore alimentare. la domanda da porsi è se vogliamo organizzare tale joint venture di settore. In questo caso “aiutarli a casa loro” diventa “produrre a casa loro”.

Le rinnovabili

Un altro settore è quello dell’energia rinnovabile: qui l’Enel sta facendo bene e indica una strada che va percorsa con decisione. Occorre inventare un modello di elettrificazione adattato ad un continente enorme, dalle grandissime distanze, sottopopolato (a parte le gradi città e la Nigeria).

L’Africa è vastissima e sostanzialmente vuota (ancora non è tornata a costituire il 25 per cento della popolazione mondiale com’era prima della Tratta): per questo può crescere a dismisura come ci dicono le stime demografiche. A livello energetico servono rinnovabili adattate, mini-grid o micro-grid ecc., più che enormi tralicci distesi per migliaia di chilometri che rischiano guasti e disperdono il 30 per cento dell’energia.

È necessario uno sforzo di ricerca tecnologica complesso da fare ora che siamo tutti in fase di transizione. Ma forse la crisi provocata dalla fine del gas russo può diventare un’opportunità. 

Le infrastrutture

Un terzo settore abbordabile per l’Italia è quello della logistica e infrastrutture da trasporto: We Build è già un gigante nel continente e costruisce dighe ovunque (si pensi all’Etiopia); i cinesi si occupano di ferrovie e porti; altri fanno aeroporti. Occorrono tuttavia anche strade medie e logistica intermodale, settore dove la situazione è anarchica.

Un paese lungimirante si concentrerebbe sui corridoi futuri (quelli della belt and road initiative ma anche gli altri, ferroviari e stradali): va intercettato il mercato della movimentazione merci, stoccaggio, catena del freddo, trasporto locale e internazionale, carico-scarico navi ecc.

Il fatto che Msc abbia rilevato tutte le attività africane di Vincent Bolloré la dice lunga sulle prospettive. Sono affari potenzialmente giganteschi solo che vi sia un piano nazionale per sfruttarli: farsi trovare cioè al posto giusto al momento giusto.

Con un migliore spirito di partnership gli africani ci aprirebbero le porte. Sarebbe utile concentrarsi su alcuni paesi alla nostra portata, come Ghana, Costa d’Avorio o Kenya, rispettivamente plaques tournantes dell’Africa occidentale e di quella orientale. Poi c’è il Corno dove siamo ben conosciuti. Si tratta di aree di straordinario interesse economico per la nostra economia.

Grazie agli investimenti cinesi, asiatici, arabi e turchi, l’Africa orientale sta diventano un hub per l’Asia lungo due direttrici. Una collegherà l’Africa orientale a quella sahelina a e del Nord che ci interssa per le questioni migratorie; l’altra connetterà le due sponde oceaniche del continente. Dovremmo essere presenti laddove tali cose accadono. Nel 2016/17 l’Italia è stata la terza fonte di investimenti nel continente, dopo Cina ed Emirati Arabi Uniti: un fatto storico.

Il passaggio dalla ventunesima posizione del 2014 alla terza testimonia gli sforzi fatti dalle nostre imprese. Restiamo ancora tra i primi investitori ma manca un sistema mediante il quale molte più aziende potrebbero cimentarsi con il continente, malgrado tutte le difficoltà del caso.

Bisogna sapere che numerosi paesi africani sono cresciuti e, al di là della loro dimensione, vogliono dotarsi di strumenti di prestigio e sovranità: aviazione leggera, ferrovie e satelliti miniaturizzati per telecomunicazioni, ambiente o altro. Anche in questo l’Italia ha delle opportunità.

Altri settori

C’è spazio per le piccole e medie aziende che producono macchine agricolo-forestali, centraline solari portatili, mezzi di trasporto pubblici, mini satelliti, avionica leggera, farmaci ecc. Non sarebbe impossibile localizzare in Africa imprese per il cuoio e quindi le scarpe. Occorre rivedere l’approccio alla Nigeria: il livello intergovernativo (G2g) è utile in ambito energetico ma va integrato con quello privato (B2b).

La Nigeria è il paese con il tasso più elevato di imprenditori africani e di miliardari (meglio del Sud Africa). Il settore privato nigeriano deve esser coinvolto bilateralmente, con incontri tra imprenditori. Come già detto, diciamo Africa ma le Afriche sono numerose e non si somigliano.

Ciò che i leader africani più responsabili cercano e raramente trovano è l’imprenditore che trasmetta know-how sul suo territorio, formando lavoratori e giovani. Per giungere a tale risultato all’Italia e alle sue aziende mancano soprattutto gli strumenti finanziari: non abbiamo più banche all’estero e le nostre imprese sono costrette ad utilizzare quelle straniere.

Sarebbe ora di ripensare a strumenti finanziari dedicati prendendo spunto e rafforzando ciò che Sace e Simest in questi ultimi anni hanno proposto e in cui si sono impegnate. La magnitudine dell’impatto ancora non raggiunge la grande massa delle Pmi italiane che potrebbe diventare il vero game changer in questa sfida. Occorre un rafforzamento del sistema e degli strumenti per aumentarne la forza d’urto: la nascita di operazioni di partenariato imprenditoriale necessita di tempo e di mezzi adeguati. La nuova cooperazione (che la legge 125 del 2014 permette) non può fare a meno di coinvolgere il settore privato nazionale nell’aiuto allo sviluppo, per tentare di rendere sostenibili nel tempo le iniziative e autonomi sul mercato i loro protagonisti. Vi sono casi in cui è l’ong a farsi carico di suscitare operazioni economicamente sostenibili nel tempo.

La creatività può dare adito a moltissime iniziative diverse ma tutte concentrate sull’accesso al mercato. Ce ne vorrebbero migliaia così da offrire allo stesso tempo la possibilità alle nostre Pmi di inserirsi e di crescere. Il risultato da ricercare nasce nella connessione tra settore privato e cooperazione allo sviluppo, tra internazionalizzazione delle imprese italiane (in specie piccole e medie) e nascita di una vera imprenditorialità africana. 

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