Quarantotto ore dopo la fine del blocco generalizzato dei licenziamenti, al termine del turno pomeridiano di venerdì 2 luglio, 152 lavoratori della Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto, in provincia di Monza e Brianza, hanno ricevuto una mail che annunciava la chiusura dello stabilimento che, fino a quel giorno, aveva prodotto cerchioni per automobili. Chiusura annunciata in un venerdì pomeriggio nel quale gli operai erano stati impegnati addirittura negli straordinari. La scusa accampata dalla proprietà: la crisi dello stabilimento precipitata durante il Covid. Soltanto pochi giorni prima il governo aveva siglato con le parti sociali un Avviso comune che, di fatto, è un incentivo per le imprese a utilizzare gli ammortizzatori sociali anziché ricorrere ai licenziamenti per motivi economici.

Nonostante questo, siamo già di fronte a realtà che indicano come alcune aziende, anche di grandi dimensioni, stiano andando in un’altra direzione. Mi riferisco, oltre a Quantum Capital Partners – fondo di investimento bavarese che controlla la Gianetti – alla multinazionale britannica Gkn che ha chiuso lo stabilimento di Campi Bisenzio e licenziato 422 lavoratori. O al rifiuto della Whirlpool di utilizzare la cassa integrazione al posto di 340 licenziamenti. Comportamento definito da Draghi «inaccettabile». Aziende che puntano, più che a salvaguardare produzioni e livelli occupazionali qui in Italia, a delocalizzare verso paesi con regole meno stringenti e costo del lavoro meno gravoso.

L’errore dello sblocco selettivo

A nostro avviso lo sblocco selettivo dei licenziamenti a fine giugno è stato un errore. La proposta del ministro Andrea Orlando di prolungarlo di altri due mesi era più che ragionevole per due buoni motivi: il primo, è che lo sblocco dei licenziamenti sarebbe avvenuto dopo il varo della riforma degli ammortizzatori sociali prevista a fine luglio, e non prima. Il secondo motivo, è che si trattava di una proposta che, accompagnata in parallelo dal prolungamento della cassa integrazione Covid, era, oltre che socialmente, anche economicamente sostenibile. Stando ai calcoli del Centro studi di Lavoro&welfare, meno di un miliardo di euro per due mesi di cig, a luglio e agosto.

Questo significa che il recente Avviso comune sottoscritto dal governo con i sindacati va sostenuto da un nuovo intervento che garantisca la sua concreta e puntuale applicazione, a partire dal ritiro dei licenziamenti.

La cosa sulla quale ci si deve concentrare adesso è, dunque, la prospettiva sociale, oltreché economica, verso la quale vogliamo orientare il paese. Essa si inscrive senz’altro nello scenario progettuale definito dal piano Next generation Eu.

Nelle parole di Mario Draghi, «se è vero che non si può avere coesione sociale senza crescita, è anche vero che non si può avere crescita senza coesione sociale», si legge il postulato di una visione che ci deve guidare. A questo proposito, un recente articolo firmato da Renato Brunetta, presenta un’interessante trattazione sull’economia sociale di mercato. Teorizzata, in Germania, all’inizio del XX secolo dalla scuola di Friburgo, l’economia sociale di mercato viene indicata dall’autore come «il modello economico cui si è ispirato il processo di integrazione europea».

Un modello fondato su tre princìpi cardine: l’individualità di matrice liberale, la solidarietà, per la quale «ogni essere umano è inserito in una società interdipendente che lo obbliga a combattere le ingiustizie», la sussidiarietà che «pone in corretto rapporto individualità e solidarietà».

L’economia sociale di mercato

Fondata su una forte responsabilità individuale, la visione dell’economia sociale di mercato dà allo stato il compito – seppur sussidiario nella libertà economica – di attuare meccanismi di sicurezza sociale che hanno «lo scopo di integrare e riequilibrare l’azione del mercato compensando i suoi eventuali fallimenti».

Attuata da Ludwig Erhard, ministro dell’Economia nel governo Cdu di Konrad Adenauer, e poi cancelliere fino al 1963, l’economia sociale di mercato ha permesso alla Germania del secondo dopoguerra di raggiungere la piena occupazione sul filo della collaborazione tra imprenditori e lavoratori. Essa ha avuto i volti e l’evoluzione rappresentati da nomi come Adenauer, Willy Brandt, Helmut Schmidt, Helmut Kohl, Gerhard Schröder e infine Angela Merkel. Ha prodotto termini celeberrimi come Mitbestimmung – cogestione – o Globalsteurung – stimolo generalizzato – in un percorso articolato che ha visto prevalere, di volta in volta, accenti più marcatamente liberali o possenti stimoli di matrice keynesiana. Una storia che va dal superamento della crisi del dopoguerra alla lotta al Covid.

Ciò, mantenendo sempre la barra verso la centralità della persona e «creando uno spazio finanziario necessario per garantire una politica sociale solidale a favore dei meno abbienti».

Sotto la pressione della pandemia, si è aperta la discussione su un nuovo modello economico nel cui ambito è nato il piano Next generation Eu. Uno scenario nel quale avviare un nuovo dinamismo che coinvolga il governo e i corpi sociali intermedi. Uno scenario accogliente per quella coesione sociale auspicata da Draghi nel quale, per tutte le buone ragioni che vanno a sostegno di uno sviluppo equilibrato e solidale, uno stabilimento industriale non possa essere chiuso senza preavviso e senza ragione, al termine del turno settimanale.

La nostra stima per Draghi è molto alta e riteniamo che sia la persona giusta per portare l’Italia fuori dalla crisi. Vorremmo, però, che l’azione del suo governo fosse maggiormente caratterizzata da un’impronta di coesione sociale e di difesa dei più fragili. Non solo a parole.

© Riproduzione riservata