Il Kosovo: una crisi infinita che pare senza sbocchi. L’incomprensione tra kosovari serbi e albanesi è totale, i risentimenti profondi, la lettura dei fatti diametralmente opposta. Eppure non si tratta di una crisi locale e limitata a quelle regioni, nata all’interno delle guerre balcaniche degli anni Novanta e connessa soltanto alla storia tragica di quelle terre.

La scelta dell’amministrazione Clinton di bombardare la Serbia, dalla sera del 24 marzo del 1999 per quasi ottanta giorni, ha cambiato il corso della storia d’Europa ed è stata all’origine di successive tensioni nell’area dell’ex Unione Sovietica. Il mondo era in piena narrazione della “fine della storia” con cui veniva esaltata la vittoria dell’occidente nella Guerra fredda (almeno così si diceva). Le guerre jugoslave sembravano scontri di retroguardia in cui la patologia della memoria (dei conflitti passati, talvolta molto antichi) ancora attanagliava popoli rimasti indietro.

Il nuovo mondo era quello della globalizzazione culturale ed economica a cui tutti partecipavano, anche la Russia di Eltsin. Le violente dispute per pochi chilometri di terra, come in Kosovo, sembravano davvero una cosa dell’altro mondo. Lo strumento militare (i bombardamenti aerei su Belgrado) utilizzato per venirne a capo, veniva definito “guerra chirurgica”, nuova versione della guerra giusta. Si trattò di una “guerra pulita” di nuovo tipo, giustificata dall’innovativa interpretazione del diritto internazionale dove alla classica “non ingerenza negli affari interni delle nazioni” (a cui si aggrappavano i serbi) e al tradizionale “diritto di autodeterminazione dei popoli” (invocato dai kosovari albanesi), l’occidente aveva affiancato il “diritto di ingerenza” (in seguito rinominato “responsabilità di proteggere”).

Ne scaturiva una nuova gerarchia delle norme che però nessuno aveva dibattuto né con i paesi non occidentali né in senso all’Onu. L’idea era che la guerra dovesse perdere il suo statuto prettamente militare per rivestire i panni del chirurgo che opera, taglia e cuce, a fin di bene. L’occidente continuava le sue guerre, ma in maniera “pulita” e giustificata.

Effetti indesiderati

Ciò di cui non ci si avvide fu che i bombardamenti “chirurgici” su Belgrado divennero uno choc per i russi. La guerra per il Kosovo ravvivò i peggiori istinti della Guerra fredda appena terminata: dopo quel 24 marzo le relazioni tra russi e americani non furono più le stesse.

La Nato era intervenuta su un fondamento giuridico contestato (e non dibattuto) tanto che dal 1999 al 2008 – anno della dichiarazione unilaterale di indipendenza – lo status del Kosovo restò ambiguo e indeterminato. La risoluzione 1244 delle Nazioni Unite conferma l’integrità territoriale della Repubblica Federale di Jugoslavia, rimpiazzata nel 2003 dalla Serbia-Montenegro e poi dalla Serbia nel 2006. Su tale base oltre la metà degli Stati dell’Onu si rifiuta ancora di riconoscere il Kosovo. In altre parole ogni indipendenza deve trovare prima un consenso generale (com’è avvento per il Sud Sudan o per l’Eritrea) e non può essere imposta.

Dalla stesura della risoluzione 1244 molto è cambiato: Milosevic è stato cacciato dal potere da una rivoluzione popolare, il tribunale speciale per la ex Jugoslavia ha giudicato molti responsabili (serbi e non) delle tragedie balcaniche, la Serbia stessa non è più quella di allora. Ma sul Kosovo tutto è rimasto come vent’anni fa: una guerra delle memorie, mai condivise, che approfondisce l’odio e non trova soluzioni politiche.

Ciò che si vuole qui sottolineare è l’impatto che tutto ciò ebbe sulla Russia. La reazione a Mosca fu immediata, con la decisione di lanciare la seconda campagna di Cecenia dopo il fallimento della prima: il tabù dell’utilizzo della forza militare per dirimere i contenziosi di autodeterminazione o secessione, si era ormai rotto. Non che la campagna per il Kosovo sia la ragione delle successive drammatiche decisioni russe, ma certamente rappresentò una grande giustificazione. Chi scrive ricorda ciò che dicevano le autorità russe dopo la fine dei bombardamenti sulla Serbia.

I militari russi si affrettarono ad occupare l’aeroporto di Pristina per non lasciare tutto lo spazio politico-militare alla Nato (fu il primo gesto anti occidentale dopo la fine della guerra fredda) e affermavano: se ci sarà riconoscimento del Kosovo con la forza, faremo lo stesso in Crimea.

Nessuno dava peso a tali posizione né ci si rese conto che -al di là dei torti e delle ragioni- si stava creando un precedente. A partire dal settembre di quello stesso anno Mosca si sentì libera di aggredire nuovamente la Cecenia, con cui pur aveva siglato un accordo: se la Nato proclamava il suo diritto di attaccare uno Stato sovrano, la Russia credeva di essere libera di farlo con una repubblica formalmente parte della Federazione. Ma quella guerra non fu chirurgica: com’è avvenuto a Mariupol e in Ucraina in generale, anche a Grozny la tattica fu di distruggere quartiere per quartiere, senza lasciare nulla in piedi.

La “guerra sporca” dei russi era diretta dal neo nominato premier russo, Vladimir Putin, divenuto l’anno successivo presidente al posto del vecchio e malandato Eltsin. Ad un mese dal suo insediamento, Putin decise la nuova offensiva, che questa volta ebbe successo anche se al prezzo di innumerevoli vittime civili. Così fu lavata l’onta subita dalle truppe russe nella precedente guerra del 1995-96.

Alle critiche occidentali sulla brutalità usata in Cecenia, i russi risposero irritati che si trattava di affari interni: da quel momento a Mosca prese avvio una nuova politica incentrata sull’orgoglio ritrovato di grande potenza. La Russia sfidava gli occidentali sul loro stesso terreno, condizionandoli anche con l’offerta del gas a basso prezzo.

L’arma dell’umiliazione

Oggi sappiamo come tutto questo è andato a finire. Tuttavia ricordare gli avvenimenti della guerra del Kosovo serve a capire perché Putin sia popolare nel suo paese e quanto conti per l’opinione russa la questione della reazione all’umiliazione.

Una grande potenza globale come l’Urss non termina senza conseguenze, come dimostrano le tante crisi che corrodono le frontiere della Russia attuale. Malgrado le decisioni aggressive prese dal potere russo, una più attenta analisi storico-politica ci permette di capire che – fatte salvo le responsabilità di ciascuno – ogni decisione presa ha sempre effetti che vanno molto al di là di ciò che si pensa, come accadde anche per la guerra del Kosovo.
 

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