Perché leggere Hannah Arendt è importante in questo tempo che mostra tutto l’orrore del nazionalismo? Lo è perché esplorare progetti diversi da quello che predica «una nazione, uno stato» è vitale. Hamas e Netanyahu coltivano piani speculari (quale che sia la potenza di cui dispongono per realizzarli): liberare il territorio dagli “altri”. Espellere e uniformare.

Si tratta di un piano coerente all’ideologia nazionalista nella quale è tracimato una parte del sionismo, con l’integrazione di una lettura religiosa dell’identificazione di stato e nazione. Era questo il rischio mortale intuito con straordinaria lucidità da Arendt, la “indesiderata”, colei che, ha detto in una recente conferenza Jonathan Graubart dell’università di San Diego, non ha mai nascosto la sua profonda diffidenza per le negative potenzialità del sionismo e per questo restò un “paria” tra gli ebrei.

Va detto che la posizione di Arendt sulla questione israelo-palestinese non restò immutata nel tempo. Si era subito opposta alla creazione di uno stato nazionale ebraico in Palestina; durante la Seconda guerra mondiale si era tuttavia anche espressa contro la creazione di uno Stato binazionale arabo-ebraico. Rifiutando entrambe le alternative, Arendt si schierò a favore dell'inclusione della Palestina in una federazione multietnica che non fosse composta solo da ebrei e arabi.

Solo nel 1948, nel tentativo di evitare la spartizione, Arendt rivide la sua critica precedente e approvò una soluzione binazionale per la Palestina. Ma la sua critica dello stato-nazione restò. E questo la rese apprezzata per la sua preveggenza e al contempo detestata dai conservatori di Israele come la madre della "israelofobia".

Come ha mostrato Simona Forti, Arendt ebbe intuizioni e produsse analisi straordinarie su nazionalismo, federalismo, natalità politica, imperialismo e razzismo, frutto dei suoi studi sull'esperienza ebraica moderna in Europa e sul progetto sionista.

Sviluppatosi alla fine dell’800 in risposta all’antisemitismo nei paese dell’est Europa, il progetto sionista era complesso e prevedeva inizialmente non uno stato ma una “casa ebraica” con l’acquisto di terre da parte di un fondo nazionale ebraico per dar vita a colonie agricole nelle quali gli ebrei europei potessero vivere con dignità. Arendt sostenne questi inizi, diremmo questa “natalità” pre-statale, come i kibbutzim. Comprese dunque le promesse del sionismo ma ne vide da subito i pericoli.

Era il paradigma dello stato-nazione e la cittadinanza su modello francese il problema sul quale Arendt invitava i suoi contemporanei ebrei a riflettere, dal quale secondo lei derivò l’imperialismo e i mostri del Novecento, l’antisemitismo e il totalitarismo, come ha mostrato Michele Battini. Prendendo sul serio le promesse di emancipazione e dignità del sionismo, Arendt pensava che quel movimento avrebbe dovuto liberarsi di due sue patologie: la convinzione di un antisemitismo eterno e l'attrazione per un nazionalismo "tribale".

Oggi queste sue riflessioni sono come una luce nell’orrore prodotto dal nazionalismo. Sì, Arendt aveva ragione nel ritenere necessario ricercare forme diverse di vita collettiva, come il federalismo per esempio; pensava che il lascito piú importante della rivoluzione americana fosse la rinuncia al nazionalismo statocentrico per tenere insieme l’autogoverno delle comunità locali con istituzioni federali.

Chissà se oggi avesse riconsiderato la "coraggiosa follia" dello stato binazionale (che durante la Seconda guerra aveva escluso) sul modello sudafricano di cui parlava Guido Rampoldi in "Domani"?

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