Ottobre 1992-ottobre 2022: trent’anni fa la pace in Mozambico veniva firmata a Roma, il 4 ottobre festa di san Francesco. Fu una cavalcata di 27 mesi di negoziati, tutti pilotati dalla Comunità di Sant’Egidio. A condurre la mediazione Andrea Riccardi e Matteo Zuppi, oggi cardinale e presidente della Cei, assieme a Jaime Gonçalves arcivescovo di Beira, oggi scomparso, e a Mario Raffaelli. Una pace insolita: a guidare i colloqui non dei professionisti della diplomazia, tanto che il segretario generale delle Nazioni unite dell’epoca, Butros Ghali, coniò la famosa definizione: «Formula italiana», cioè «una miscela, unica nel suo genere, di attività pacificatrice governativa e non».

Quel negoziato di Sant’Egidio è divenuto un modello studiato nelle università e dagli specialisti del conflict resolution. Non si tratta di storia passata: molte sono le lezioni che quella pace continua ad insegnare ancora oggi. Innanzi tutto le virtù del dialogo: la necessità che esiste nelle relazioni internazionali di continuare a parlarsi. È l’arte dell’incontro mai facile (non un embrassons-nous confortevole) da costruire quotidianamente.

A livello mondiale il dialogo politico è come l’aria: la condizione necessaria per la convivenza tra nazioni. Quando manca se ne vedono subito le gravi conseguenze, come accade oggi. Per superare il sistema conflittuale che attanagliava i mozambicani, stretti tra il governo del Frelimo afro-marxista e la misteriosa guerriglia Renamo appoggiata dal Sudafrica dell’Apartheid, fu utilizzato il metodo del «cercare ciò che unisce piuttosto che quello che divide», come disse Andrea Riccardi all’inizio dei colloqui, citando Giovanni XXIII.

La sfida era creare un clima favorevole al parlarsi e all’ascoltarsi, scommettendo sul desiderio di futuro delle parti e senza sostituirsi ad esse. Per risolvere un conflitto tra fratelli che assieme avevano combattuto i colonizzatori, non bastava un approccio tecnico. C’era una patologia della memoria dei torti subiti da curare con il dialogo: si trattava di persone vere, con le loro ferite, contraddizioni, risentimenti, tutte questioni da prendere in conto.

D’altronde questi stessi leader dovevano credere nella pace per poi viverla. In un recente studio sulle mediazioni internazionali di Milena Dieckhoff, pubblicato da SciencesPo a Parigi, l’autrice rileva che il «primo fattore determinate per l’ottenimento della pace in Mozambico è stato il riconoscimento degli interlocutori reali, così come la comprensione culturale e antropologica del conflitto e dei suoi protagonisti». «La strategia principale del processo di mediazione» prosegue «ha consistito nel non mettersi sotto il registro dell’imposizione ma di privilegiare un metodo progressivo e non forzato».

Una ragione ulteriore

La lezione della pace mozambicana fu che occorreva rifondare la fiducia tra le parti, dando spazio alle ragioni di ciascuna ma senza precludere la ricerca di una ragione ulteriore, un oltre che nel caso mozambicano era fondato sull’essere tutti membri dello stesso popolo.

L’idea che combattersi fosse l’unica via possibile veniva superata non solo dalla mancanza di un reale vincitore sul terreno (dal fatto cioè che non vi fosse soluzione militare alla contesa) ma soprattutto dalla prospettiva che la pace non significava una resa alle ragioni dell’altro, né una mera ripartizione del potere: c’era qualcosa oltre, un Mozambico “casa comune” da rifondare insieme. Ciò fu molto sentito dalle parti e divenne per loro come una conversione. Detto in altri termini: avvenne una trasformazione da uomini di guerra a uomini politici, con idee divergenti ma un quadro di regole comuni.

È importante sottolinearlo oggi quando vediamo che le guerre possono prolungarsi – senza vincitori – per anni e talvolta decenni: senza le trattative di Roma cosa avrebbe garantito al Mozambico un diverso destino? Molti conflitti sono stati lasciati covare sotto la cenere per poi riesplodere a contatto con fatti inaspettati o condizioni mutevoli.

Anche i mozambicani potevano rischiare qualcosa di simile. Si è detto che il conflitto mozambicano era l’ultimo della guerra fredda e che la fine dello scontro bipolare lo avrebbe esaurito. Niente di più incerto se guardiamo a ciò che accadde nel Corno o in altre zone dove la guerra fredda aveva fatto da detonatore.

È essenziale notare che una mediazione non istituzionale, disinteressata e senza interessi riesce meglio dove l’approccio istituzionale appare appesantito da interessi nascosti e agende segrete. Come ha scritto Andrea Riccardi: «C’è una forza persuasiva della gratuità e del disinteresse personale nel ricomporre fratture nate dai conflitti».

Potremo dire di moral suasion che – proprio per la sue caratteristiche non minacciose e non impositive – diviene un’energia di pace più grande di ciò che si potrebbe immaginare. Si tratta di un’altra lezione per il presente: la forza della ragionevolezza –se portata avanti con continuità e pazienza- può funzionare laddove sembra che l’ultima parola sia destinata a restare alle armi. Il dialogo non è un darsi ragione l’un l’altro né una retorica per anime belle, ma può divenire un potente strumento di pacificazione.

Non a caso a Sant’Egidio non si parla tanto di pacifismo ma di pacificazione: un processo e non una posizione aprioristica. Spesso chi ha preso le armi (soprattutto contro i propri fratelli) pensa che si tratti di una scelta senza ritorno. La scommessa è aprirgli davanti un’altra possibilità, senza che ciò significhi umiliazioni o rinnegare sé stessi.

Il tema del “salvare la faccia” – molto in voga oggi – assume una luce diversa: non un espediente politico ma il bilancio di una vita. Ecco perché si deve dialogare con tutti, anche con chi appare ostile: ognuno ha un suo personale passato da salvare (o da redimere) e un futuro da cercare.

Relazioni profonde

In Né vittime né carnefici, Albert Camus, che di odio se ne intendeva, scrive che «il solo onore sarà quello di mantenere la formidabile scommessa nel decidere che le parole sono più forti delle pallottole».

È interessante capire come Sant’Egidio entrò in una simile vicenda. Innanzitutto l’Italia aveva in Mozambico una posizione non legata a storie coloniali, frutto dell’approccio politico degli anni Settanta fatto di cooperazione, slancio solidaristico della società italiana e di relazioni tra le chiese. I democristiani erano sensibili alle sollecitazioni dei missionari italiani. Dal canto suo il Pci era influente sul regime e aveva un ruolo nella formazione dei quadri Frelimo.

Il Mozambico era un paese senza libertà, anche in campo religioso. Molti edifici della chiesa erano stati nazionalizzati e la vita ecclesiale ridotta al lumicino. Un giovane vescovo mozambicano, Jaime Gonçalvez, poi mediatore, chiese l’aiuto a Sant’Egidio che organizzò un singolare incontro tra il vescovo e il segretario del Pci, Enrico Berlinguer. Quest’ultimo, colpito dalla situazione, inviò una delegazione del partito (guidata dal fratello Giovanni) per chiedere all’allora presidente Samora Machel la fine della campagna antireligiosa. Il disgelo stato-chiesa aprì la strada alla possibilità dei negoziati: Gonçalvez infatti cercava anche una prospettiva per uscire dalla guerra civile. Non era facile: la comunità internazionale sosteneva che quel conflitto dipendeva dal ben più ampio quadro dello scontro bipolare e dall’Apartheid.

Sant’Egidio, presente sul terreno, aveva un’idea diversa e cioè che la guerra fosse anche il risultato di questioni endogene, che la Renamo esprimesse un malcontento popolare. Questa storia dimostra che tessere relazioni con continuità può aiutare anche nei casi più complessi, e che tanto può essere realizzato con i mezzi semplici delle relazioni e dell’amicizia.

È una grande lezione per il nostro presente in cui si ci si lascia andare all’inevitabilità del conflitto e alle sue logiche e si crede troppo poco alle opportunità offerte dal dialogo e dalla trattativa. La pace in Mozambico dimostra che si può negoziare anche in Ucraina.
 

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