In un discorso recente Khamenei ha detto che le donne «in Iran sono più libere che in Occidente». Nel paese in cui vige un regime di apartheid di genere – e in cui si arresta chi organizza maratone dove si corre senza velo – continuano gli atti di disobbedienza civile: la libertà non si proclama, si pratica
«Le donne in Iran sono più libere che in Occidente». Con questa affermazione, pronunciata durante un incontro con un gruppo di sostenitrici e poi rilanciata sui social, la Guida suprema della Repubblica Islamica dell’Iran, Ali Khamenei, è tornato a riproporre una retorica che il regime utilizza da decenni: il presunto “modello islamico” che valorizzerebbe e proteggerebbe la donna più delle società occidentali, che ha attaccato tra le altre cose anche per le disparità salariali tra i generi.
Le sue parole hanno generato un’ondata di sdegno tra attiviste e difensori dei diritti umani, che denunciano come la realtà giuridica e sociale dell’Iran racconti tutt’altro, nonostante negli ultimi decenni le donne abbiano superato gli uomini nell’istruzione universitaria e abbiano acquisito una crescente consapevolezza dei propri diritti fondamentali.
Apartheid di genere
Dietro la patina ideologica, infatti, sopravvive un impianto legislativo basato su un’interpretazione della Sharia che relega le donne a cittadine di seconda classe. Non si tratta di un’opinione, ma di un dato verificabile articolo per articolo: un sistema di apartheid di genere, come denunciano molte attiviste e attivisti, tra cui la premio Nobel per la Pace 2023 Narges Mohammadi, condannata a lunghi anni di detenzione per il suo attivismo a favore dei diritti umani e dei diritti delle donne.
Le discriminazioni di genere sono radicate in ogni settore della vita delle donne in Iran. In tribunale, la testimonianza di due donne equivale a quella di un uomo, persino il “prezzo del sangue”, il risarcimento previsto per danni gravi o omicidio, vale la metà se la vittima è di sesso femminile.
Le disparità si estendono al diritto successorio: figlie, madri e sorelle ereditano meno del membro maschile della famiglia. Inoltre una donna che vuole lavorare, studiare o viaggiare ha bisogno del permesso del marito. Lo stesso vale per il divorzio, per il quale gli uomini godono di una libertà illimitata, mentre alle donne sono richiesti requisiti durissimi, che rendono praticamente impossibile per loro ottenerlo.
In caso di divorzio, la custodia dei figli è affidata al padre o al nonno paterno, riducendo drasticamente il ruolo materno nella vita dei minori. Il corpo femminile rimane poi un terreno di controllo politico. Il velo obbligatorio, abolito nelle piazze prevalentemente in seguito alla nascita dal movimento “Donna, Vita, Libertà” ma mai dalle leggi, è tuttora una delle principali armi di repressione: chi non lo indossa corre il rischio di sanzioni, arresti e violenze. È successo in questi giorni, con l’arresto degli organizzatori della maratona corsa da migliaia di donne a capo scoperto nell’isola di Kish, lo scorso 5 dicembre.
La libertà si pratica
Eppure, dal 2022 a oggi, le donne hanno conquistato spazi simbolici attraverso la disobbedienza civile: non rispettando il codice di abbigliamento islamico obbligatorio e vestendosi come scelgono, hanno costretto il regime a fare passi indietro. Una ribellione che non nasce oggi: dall’8 marzo 1979 le iraniane protestano contro l’obbligo del velo e contro il controllo dello Stato sul proprio corpo, consapevoli che quell’imposizione è tutt’altro che un precetto religioso, bensì uno strumento di potere.
A queste restrizioni si sommano barriere strutturali che escludono le donne da interi settori professionali. Dopo la rivoluzione del 1979, molte carriere sono diventate di fatto inaccessibili: la magistratura, il ruolo di presidente della Repubblica e altri incarichi chiave dello Stato restano appannaggio maschile.
Un elenco che è ancora più lungo e doloroso ed è ben sufficiente a smontare l’affermazione secondo cui le donne iraniane godrebbero di una libertà superiore a quella occidentale. Una narrazione che sopravvive grazie a un ristretto gruppo di sostenitori e sostenitrici del regime, spinti da ideologia o dal desiderio di preservare privilegi, mentre gran parte della popolazione, soprattutto giovani e donne, non lo riconosce più come legittimo.
Secondo la retorica ufficiale, il sistema iraniano protegge la donna tramite valori come “purezza”, “onore” e “decoro”. Ma proprio questi concetti, più che tutelare, diventano strumenti di controllo sociale.
La donna non è considerata individuo autonomo, ma parte di un nucleo patriarcale in cui la sua identità coincide con il ruolo che ricopre: madre, figlia, sorella. Invece l’Occidente , pur con tutti i suoi limiti, contraddizioni e battaglie ancora aperte, disegna un modello opposto: quello dell’autodeterminazione.
Le donne occidentali hanno conquistato con decenni di lotte la possibilità di scegliere il proprio percorso, di essere soggetti giuridicamente uguali agli uomini, di accedere alle professioni e di avere piena libertà di movimento, opinione e vita privata. Un modello perfettibile, certo, ma che mette al centro l’individuo e non l’ideologia.
In Iran, nel frattempo, le parole di Khamenei rimbalzano in un paese in cui la resistenza femminile non può più essere soffocata. Dalle piazze al quotidiano, le iraniane mostrano che nessuna propaganda potrà cancellare la realtà: la libertà non si proclama, si pratica.
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