La proposta della Commissione europea di riforma delle regole fiscali del Patto di stabilità e crescita è un importante passo avanti, sebbene certamente non conclusivo, nella costruzione di un sistema di governo dell’economia della Ue che tenga insieme le esigenze della stabilità finanziaria e il ruolo della politica fiscale. Si possono enucleare due punti fondamentali, uno di natura politica e l’altro più tecnico.

La proposta della Commissione

Meno austerità e più crescita per un nuovo patto di stabilità

Il sistema attuale (sospeso dal 2020 per far fronte ai riflessi economici della pandemia) è basato su un insieme di regole uniformi che fissano per tutti gli stati membri obiettivi e percorsi di avvicinamento verso di essi. Ad esempio, l’obiettivo per il rapporto tra debito e Pil  è il 60 per cento (un valore fissato nel trattato) e il percorso di avvicinamento per chi si trova su valori superiori prevede una riduzione in ragione di 1/20esimo l’anno della distanza tra valore effettivo e obiettivo.

Nei fatti questa regola è stata raramente rispettata ma ciò non ha mai portato all’apertura di procedure di infrazione perché la Commissione nella sua valutazione dei risultati può tener conto di una serie di «fattori rilevanti». Insomma, ex ante un sistema di regole rigide e uguali per tutti ma una valutazione ex post nella quale entrano in gioco ampi margini di flessibilità e, in qualche misura, di arbitrarietà.

La proposta cambia radicalmente approccio. Sul debito si ritorna all’impostazione originaria del Trattato, per cui se si è oltre la soglia del 60 per cento occorre che il debito diminuisca a «un ritmo soddisfacente», senza fissarne a priori la misura. Viene riconosciuto esplicitamente – solo pochi anni fa sarebbe stato impensabile – che l’applicazione della regola di 1/20 esimo l’anno può essere controproducente per i paesi con debito elevato.

Condivisione di un impegno

Cosa migliora e cosa no nella riforma del patto di stabilità

È l’abbandono del paradigma prevalente negli ultimi decenni che assegnava alla politica fiscale unicamente il compito di garantire la stabilità finanziaria, non riconoscendone l’efficacia come strumento per la stabilizzazione economica. Nella proposta il percorso di riduzione del debito dovrà basarsi su piani a quattro anni presentati dai singoli paesi e approvati da Commissione e Consiglio europeo.

Non più quindi regole calate dall’esterno ma condivisione di un impegno politico del singolo stato nei confronti dei partner. Il più ampio margine di manovra garantito agli stati ha come contraltare una maggiore rigidità nella fase di applicazione: i piani dovranno essere rispettati lungo tutto l’orizzonte quadriennale e non potranno essere modificati se non a fronte di shock particolarmente rilevanti.

In condizioni normali, deviazioni dal sentiero concordato comporteranno l’apertura automatica di una procedura di infrazione per disavanzo eccessivo.  Dovrebbero così sparire le estenuanti trattative annuali e gli esercizi di fantasia per strappare nuovi margini di flessibilità. Interlocuzioni e trattative resteranno ma nella fase di predisposizione e approvazione del piano.   

Il secondo punto, di natura tecnica, riguarda lo strumento che si utilizza per verificare se il piano viene rispettato. Un risultato di bilancio diverso da quello fissato nel piano può dipendere semplicemente dall’andamento dell’economia. Il controllo della realizzazione del piano si deve quindi basare su un indicatore che non dipende dal ciclo. Nel sistema attuale l’indicatore utilizzato è il saldo strutturale, una misura del disavanzo corretta sulla base di variabili quali il prodotto potenziale e l’output gap (la differenza tra prodotto potenziale ed effettivo), variabili non osservabili e soggette a revisioni infinite. Il loro utilizzo ha contribuito non poco al discredito delle regole attuali.

Regola sul disavanzo

Opportunamente la proposta della Commissione abbandona questo armamentario tecnico e affida la verifica a una “regola della spesa”, basata su un indicatore chiaro per tutti. La denominazione è per certi versi infelice e può generare confusione. Un equivoco in cui è caduto qualche commentatore, lamentando che essa costituisce un’indebita intromissione nella decisione sulla composizione del bilancio tra spese ed entrate e quindi sul perimetro stesso dell’intervento pubblico negli stati.

In realtà, l’indicatore di spesa considerato è al netto non solo delle voci di spesa che risentono del ciclo (interessi e prestazioni di disoccupazione) ma anche delle misure discrezionali sulle entrate.

In altre parole, nuove misure che aumentino voci di spesa non ciclica sono ammesse ma devono essere compensate da nuove misure sulle entrate (e viceversa per tagli di imposte). La “regola sulla spesa” proposta dalla Commissione è, insomma, una regola sulle voci non cicliche di entrata e di spesa del bilancio ovvero una regola sul disavanzo depurato dagli effetti del ciclo.

Cosa significa per l’Italia?

Quali sarebbero le implicazioni per l’Italia? Innanzi tutto aumenterebbe il grado di condivisione nazionale delle regole fiscali, non più un oggetto misterioso imposto da Bruxelles ma, invece, la verifica del rispetto di un piano disegnato dal governo italiano. Ciò potrebbe finalmente portare parlamento e opinione pubblica a introiettare la nozione che, al di là dell’altezza su cui si pone l’asticella, esiste sempre un vincolo di bilancio.

Avrebbe poi un valore pedagogico: costringerebbe a ragionare su un orizzonte ampio e non più soltanto annuale. I progetti di bilancio italiani sono sempre stati basati sul rinvio delle misure correttive nella tacita convinzione che poi sarebbe seguito un nuovo rinvio. Esemplare la vicenda della clausola Iva, un tormentone che ha segnato le leggi di bilancio per quasi dieci anni. Abbandonare questo schema, cui non si sottrae questa Nadef ci farebbe acquistare credibilità presso i partner europei e i mercati finanziari e, per questa via, ridurrebbe e stabilizzerebbe i tassi di interesse sul debito.

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