La visita di Emmanuel Macron a Washington, nei giorni scorsi, non è stata di routine. Negli ultimi mesi i rapporti tra i due paesi erano tesi, dopo lo sgarbo del settembre 2021, quando l’Australia aveva annullato un ordine di sottomarini nucleari francesi per firmare un nuovo contratto con un fornitore statunitense.

Da quell’episodio, che aveva causato il richiamo degli ambasciatori da Washington e da Canberra, si era stabilito un clima di diffidenza reciproca che la visita ha dissipato.

Guerra commerciale

Prima di incontrare  il presidente americano Joe Biden, Macron ha attaccato uno dei provvedimenti faro dell’amministrazione statunitense, l’Inflation Reduction Act (Ira).

La legge è stata approvata nell’agosto scorso, dopo estenuanti trattative tra l’amministrazione e il Congresso; per la prima volta, contiene significativi passi avanti nell’incentivare risparmio energetico e transizione ecologica.

Pur salutando il nuovo atteggiamento americano, l’Europa ha da subito stigmatizzato il protezionismo di misure che privilegiano l’industria americana in settori cruciali non solo per la transizione ecologica ma per la crescita e la produttività.

L’Ira, per esempio, prevede incentivi (di 7.500 dollari) per l’acquisto di veicoli elettrici, ma solo a condizione che questi siano assemblati negli Stati Uniti e a partire da componenti in maggioranza prodotti in loco.

Un altro aspetto controverso della legge sono i sussidi e le esenzioni fiscali per le imprese che investono negli Stati Uniti, un passo avanti nella strategia di reindustrializzazione che era già stata al centro dell’agenda di Donald Trump, che rischia di provocare una fuga delle produzioni dall’Unione europea.

Macron davanti ad alcuni parlamentari e imprenditori ha parlato di un rischio di «frammentazione dell’Occidente» e di norme «super aggressive per le imprese europee».

Nonostante queste bellicose dichiarazioni, l’incontro il giorno dopo si è concluso con pochissime concessioni da parte di Biden, che sull’Inflation Reduction Act non ha intenzione di riaprire i negoziati con un Congresso riottoso.

Al massimo, le imprese europee potranno spuntare qualche esenzione al momento dei regolamenti attuativi della legge.

Tra Biden e Scholz 

German Chancellor Olaf Scholz looks on during a joint news conference with Cyprus President Nikos Anastasiadis, not seen, at the Federal Chancellery in Berlin, Germany, Wednesday Nov. 23, 2022. (Kay Nietfeld/dpa via AP)

Il presidente francese sapeva che non avrebbe ottenuto quasi nulla, eppure è uscito dal colloquio parlando di amicizia cementata, di cooperazione, di fiducia e di franchezza. 

Potremmo essere l’ennesimo equilibrismo di Macron, di cui in patria è ben conosciuto il “en même temps” che ricorda i nostri “ma anche” di veltroniana memoria.

Vorrei però azzardare un’altra spiegazione: per Macron lo scopo era stato raggiunto alla vigilia, con affermazioni che sembravano indirizzate ai partner europei più che ai suoi ospiti.

Da mesi il presidente francese spinge per l’adozione di un Buy European Act improntato agli stessi principî della legge americana: agevolazioni e incentivi per le produzioni domestiche e per le attività rilocalizzate all’interno dell’Unione.

Non si tratterebbe di un passo banale. In primo luogo, occorrerebbe attuarlo a livello europeo, con un nuovo programma del tipo di Next Generation Eu.

Infatti, non tutti i paesi europei hanno gli stessi margini di manovra di bilancio (tanto più dopo il suicida rialzo dei tassi intrapreso dalla Bce); se si lasciasse ai singoli governi il compito di sostenere le imprese domestiche, alcuni (si legga la Germania) potrebbero farlo in modo molto più significativo, con il rischio di aumentare quei divari territoriali che il mercato unico dovrebbe invece contribuire a ridurre.

Inoltre, il Buy European Act sarebbe in una zona grigia riguardo alle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, tanto che la Commissione europea ha inizialmente considerato (per poi scartare, per non avvelenare il clima), l’ipotesi di un ricorso contro l’Ira. 

Per questi motivi una norma del genere necessiterebbe della stessa unità e della stessa risolutezza che i paesi europei mostrarono quando nel 2020 misero in piedi in poche settimane il programma Next Generation Eu.

Le dichiarazioni di Macron potrebbero essere lette come un tentativo di svegliare un’Europa che oggi appare molto meno risoluta di allora, con la Germania avvitata su sé stessa e il governo italiano che non dà certo prova di euroentusiasmo.

L’Europa al bivio

La battaglia di Macron è tanto disperata quanto necessaria. Quello che è in gioco, infatti, è la capacità dell’Europa di non farsi definitivamente spingere ai margini.

Siamo alla vigilia di un cambio di paradigma produttivo, con le transizioni ecologica e digitale che trasformeranno le nostre economie.

La prosperità si costruirà (si sta costruendo) su settori come le rinnovabili, la mobilità de-carbonata, le infrastrutture energetiche, le batterie, sulle quali la lotta per prevalere è già accanita.

Per l’Ue mantenere un approccio multilaterale nell’arena internazionale mentre gli altri paesi proteggono i loro mercati e le loro imprese (e mentre al nostro interno alcuni Stati Membri fanno lo stesso), vuol dire perdere il treno della trasformazione industriale in atto.

La storia ci insegna che la protezione dei settori nascenti è una strategia consolidata per proteggere lo sviluppo di comparti troppo deboli per camminare da soli.

L’economista Thomas Piketty ricordava nei giorni scorsi come alla fine del diciottesimo secolo lo sviluppo dell’industria tessile britannica fosse stato reso possibile da tariffe draconiane che la ripararono dalle importazioni dall’India, che all’epoca dominava.

Il liberoscambismo è un lusso che ci si può permettere solo per le industrie mature, come hanno amaramente constatato molti paesi in via di sviluppo desertificati dall’apertura alla concorrenza.

Se non vuole condannarsi all’irrilevanza, l’Europa (non l’Italia, o la Francia, o la Germania) deve trovare un modo per conciliare l’investimento nella transizione ecologica e digitale con la protezione e il rilancio dell’industria domestica.

Se lo si fa con decisione e con una strategia di lungo periodo, è possibile che questo possa avvenire in un quadro di “competizione amichevole” con gli altri paesi avanzati ed emergenti, e non con improvvisate ed inefficaci misure di ritorsione di risposta alle loro politiche industriali e commerciali.

Se no, potremo sempre rassegnarci a divenire l’hub turistico per il resto del mondo.

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