"I sette giorni che potrebbero sparigliare il mercato globale del petrolio”: così il Financial Times apriva mercoledì scorso. I sette giorni si riferivano al 5 dicembre prossimo, quando dovrebbe essere introdotto il price cap sulle forniture russe di petrolio via nave per limitare i ricavi della Russia, senza però interromperne il flusso onde evitare uno shock globale sui prezzi: il cap dovrebbe essere infatti superiore al costo di estrazione.

L’onere di decidere il cap spetta all’Europa: il meccanismo vincola noli e assicurazioni del trasporto marittimo all’adesione da parte del compratore al prezzo imposto; e gran parte delle compagnie che gestiscono il traffico marittimo sono europee.

Ma l’Europa è divisa tra chi reclama un cap punitivo e chi, per proteggere le proprie petroliere (Grecia, Malta e Cipro), spinge per un prezzo poco sotto quello di mercato: indiscrezioni di stampa indicano un possibile punto di accordo intorno ai 60 dollari, inferiore agli 87 del Brent di oggi ma superiore al prezzo scontato di 50 che attualmente la Russia riesce a incassare. Un altro aspetto, insieme alle forniture di gas, della guerra economica che la Russia combatte contro l’Europa.

La guerra del prezzo

Ocean Rebellion demonstrators protest outside the International Maritime Organisation against the use of fossil fuels in the shipping industry, in London, Monday, Nov. 21, 2022. (AP Photo/Alastair Grant) Associated Press/LaPresse Only Italy and Spain

Il price cap sul petrolio ha innescato una reazione a catena globale con l’Arabia Saudita che per ritorsione (vuole mantenere il prezzo elevato) hanno annunciato un taglio della produzione (e altri forse in discussione nella prossima riunione dell’Opec), in aperto contrasto con l’ex alleato americano che, per evitare la benzina alle stelle, ha inondato il mercato riducendo le riserve strategiche (400 miliardi di barili, pari a circa un terzo del totale) e perfino autorizzato la ripresa dell’attività estrattiva del petrolio venezuelano, nonostante le sanzioni al regime di Maduro.

Sul fronte del gas, dopo mesi di discussioni l’Europa è riuscita solo a trovare un accordo su un prezzo massimo così elevato (275 euro, il doppio dell’attuale) per sette giorni consecutivi che non serve a niente: è stato superato una volta sola per 2 giorni.

Per sostituire le forniture russe di gas molti paesi hanno optato per i rigassificatori flottanti, perchè sono di fatto delle navi, disponibili in tempi rapidi e costano il 60 per cento di un terminale fisso.

L’Europa ne ha prenotati 21 nei prossimi anni dalle società che li noleggiano (fonte IEA). Il problema è che ce ne sarebbero circa 50 in funzione tutto il mondo e il principale cantiere che li costruisce, in Corea, ha tempi e ordinativi lunghissimi. L’offerta è quindi limitata.

La politica dei contagi zero ha fatto crollare la crescita cinese, comprimendo così la domanda di uno dei principali importatori di energia. Il rallentamento dell’economia cinese si è allargato a tutti gli altri paesi dell’Asia che dipendono interamente da energia importata.

Con la probabile ripresa nel mondo, negli anni a venire l’Europa si troverà pertanto a competere con l’Asia sia per il gas, sia per i rigassificatori. Un chiaro segno della competizione prossima ventura è il contratto appena stipulato dalla Cina con il Qatar per una fornitura di ben 27 anni di gas Lng: incidentalmente un brutto segnale per il riscaldamento della terra da parte del paese che produce il 30 per cento delle emissioni globali.

Ancora più sorprendente che la Germania, solo pochi giorni dopo, abbia annunciato un suo contratto col Qatar, per “soli” 15 anni (puntare alle scadenze cinesi sarebbe stata una clamorosa smentita dell’obiettivo net zero).

Pochi investimenti

President Joe Biden speaks about strengthening the infrastructure talent pipeline during an event in the East Room of the White House, Wednesday, Nov. 2, 2022, in Washington. (AP Photo/Evan Vucci)

L’ulteriore problema del gas è che le imprese degli Stati Uniti, primi produttori al mondo davanti alla Russia, non investono nell’ampliamento della capacità produttiva e dell’export, replicando la strategia dei produttori di petrolio “shale”: non fanno investimenti di lungo periodo perché si attendono un forte incremento delle rinnovabili, sia in Europa sia negli Usa, specie dopo il piano di incentivi lanciato da Biden, che alla lunga ridurrà domanda e prezzo delle energie fossili.

Per questo non investono, perché non sarebbero investimenti redditizi, preferendo massimizzare i cash flow attuali, da usare per finanziare la diversificazione nelle rinnovabili, e diventarne gli attori principali (oltre a pagare lauti dividendi).

La stessa strategia di Arabia Saudita e paesi del Golfo: consapevoli dell’imminente tramonto dell’era di petrolio e gas, vogliono mantenere i prezzi alti, tagliando la produzione, per massimizzare oggi le risorse che servono alla riconversione delle loro economie.

Il puzzle

Si è generato così un gigantesco puzzle da ricomporre. Negli ultimi decenni l’energia fossile è stata alla base della crescita economica mondiale. E il suo flusso governato da uno stabile ordine mondiale. Gli Stati Uniti, dopo la crisi degli anni settanta, hanno puntato all’autonomia energetica, diventando primi produttori al mondo di gas e petrolio, ma destinandolo sopratutto al mercato interno.

L’Europa continentale dipendeva per il gas in larga parte dalla Russia e da un’imponente infrastruttura di gasdotti (ad eccezione di Spagna), oltre che al suo petrolio. Il Medio oriente era il primo fornitore dell’Asia. Questo equilibrio si è rotto.

Gli Stati Uniti mantengono l’obiettivo dell’autosufficienza, e l’Lngoggi fornito all’Europa presto sarà in competizione con la domanda asiatica. E con l’Inflation Reduction Act incentivano il più vasto piano di conversione alle rinnovabili, anche con l’obiettivo di rendersi autonomi dalla Cina per batterie, minerali, pannelli solari, eolico, processi chimici e tecnologia applicata: ovvero privilegiano la riduzione dei rischi geopolitici, anche a costo di produrre a costi più elevati. Ancora una volta una scelta di autonomia e autosufficienza.

L’Asia, con la crescita, tornerà ad essere mercato di riferimento del Medio Oriente. La Russia dirotterà il suo petrolio verso Cina, india e paesi emergenti, magari in cambio di influenza politica.

Per il gas non ha l’infrastruttura per mandare in Asia quello destinato all’Europa e quindi vedrà la propria industria contrarsi; potrà spostarsi sul trasporto via nave di Lng che incidentalmente continua a esportare in Europa (16 per cento delle importazioni), anche se una frazione di quanto erogava via tubi.

Europa e rinnovabili 

All’Europa manca una chiara strategia energetica (o forse qualcuno si illude di trovare una soluzione per l’Ucraina e tornare a fornirsi da mamma Russia). Così si va in ordine sparso. La soluzione Lng/rigassificatori è necessariamente temporanea e presto si scontrerà con la crescita della domanda globale; e crea una forte disparità tra chi è attrezzato, come la Spagna, e chi dipendeva dal gasdotto come la Germania o l’Italia.

Manca un efficace piano di incentivi per le rinnovabili: la prova è che ogni giorno si allunga l’elenco delle imprese europee del settore che dichiarano di vedere negli Usa il proprio futuro. La stessa Commissione si lamenta dei tempi burocratici eccessivamente lunghi tra la richiesta dei permessi e l’installazione di rinnovabili: un imprenditore del settore ha dichiarato che sono talmente lunghi da rendere nel frattempo la tecnologia obsoleta.

A differenza degli Usa, l’Europa segue il modello tedesco di privilegiare i bassi costi di produzione cinesi per pannelli, materiali, tecnologia e batterie rispetto ai costi geopolitici che questo comporta; al punto che anche i produttori europei di pale eoliche, dove eccelliamo, lamentano che presto non saranno più competitivi con i concorrenti cinesi.

Transizione e prezzi

L’unica certezza è che nella transizione alle rinnovabili, la combinazione tra domanda di energia per sostenere la crescita e riduzione degli investimenti nelle fonti fossili ne aumenterà il prezzo relativo, con picchi legati ai rischi geopolitici.

Un trend destinato a durare prima di invertirsi per sempre. Nel frattempo il principale problema dei Governi è quello di sostenere le fasce deboli. Ma anche qui ogni paese va in ordine sparso: secondo Bruegel, la Germania ha destinato il 7,4 per cento del Pil a questo scopo, il doppio della media di Francia, Olanda, Spagna, UK e Portogallo.

Quanto all’Italia, col 5,1 siamo secondi dopo la Germania tra i grandi paesi, nonostante le nostre finanze disastrate. Non è sostenibile. Politica energetica comune europea cercasi disperatamente.

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