Forse, prima ancora di quello previsto dal Partito democratico nei prossimi mesi, bisognerebbe indire un congresso costituente di tutta la sinistra mondiale. I risultati elettorali di Stati Uniti, Svezia, Israele, Francia e, naturalmente, del nostro paese sembrano la prova che i partiti progressisti stanno attraversando una crisi globale.

Sembra paradossale che un tempo la destra li additasse come custodi di un’egemonia culturale, quando, oggi, questi sono i primi a chiedersi cosa realmente li distingua dai conservatori.

Chi ha le idee chiare sono gli elettori, almeno a giudicare dai sondaggi: piace il messaggio che la destra riesce a trasmettere in un momento di sfide globali, dando l’impressione di essere comprensibile e coerente nelle proprie posizioni e nel definire i programmi. Ma non è solo questione di un buon marketing, il pensiero di destra appare chiaro soprattutto perché è in linea con quella che è veramente l’egemonia culturale del nostro tempo: la cultura dell’individualità.

Individui oltre il liberalismo

Non c’è nulla di per sé strano o negativo in questo. L’individualità vive all’interno della cultura liberale, un pensiero che ci dà la possibilità di manifestare talenti, idee e aspirazioni personali e di agire in base ad essi.

Tutti in Occidente dobbiamo a questa cultura la possibilità di esprimere la nostra identità, ma c’è una controindicazione: esasperandola si accelera la corsa all’individualismo insito in essa e si perde la capacità di affrontare le sfide globali in termini di comunità. Per la destra questo non è un problema: l’individualismo fa parte della propria matrice. Dire “Io sono Italiano/a”, dando enfasi alla prima persona, è parte di una precisa cultura politica.

La cultura politica di sinistra, invece, prevede di esprimersi attraverso la pluralità. Quando la storia ha consacrato la cultura liberale come un modello vincente a livello globale, anche i progressisti hanno capito che avrebbero dovuto abbracciarla, ma non che l’individualismo che conteneva potesse dilagare fino a diventare un problema.

Per riuscire a conservare la propria identità nel mondo contemporaneo, la sinistra avrebbe dovuto inserire il liberalismo all’interno di una visione collettiva. Un incastro che si è rivelato difficile. Ci ha comunque provato: ha posto l’accento sulle tematiche identitarie partendo da quelle più marginalizzate, ha fatto dell’agenda dei diritti civili il suo tratto distintivo, ma ha dimenticato la seconda parte di un progetto che poteva essere ben più ampio.

Battersi per garantire a gruppi di persone la libertà di esprimersi avrebbe potuto essere la chiave per dare voce a tutti nel progettare, insieme, un futuro comune. Un’occasione persa, non solo per la sinistra globale, ma per una significativa parte dell’umanità affamata di quell’immaginario collettivo necessario per uscire dalle crisi in cui si trova. Logico allora che le risposte chiare e dirette della destra sembrassero più appetibili.

Il tentativo, però, ci può far riflettere su come il rapporto tra liberalismo e cultura dell’individualità non sia necessariamente un abbraccio mortale.

Gli Stati Uniti

Persino tra gli artigli del simbolo liberale più sfrenato, l’aquila solitaria degli Stati Uniti, campeggia il motto “ex pluribus unum”. Ciò che serve è ritrovare un’altra cultura, capace di sintetizzare in quell’“unum” la pluralità delle identità che, anche grazie alla sinistra, hanno ritrovato dignità di esistenza e di espressione.

Per farlo la cultura da cui devono ripartire i partiti progressisti è quella della comunità. Una roadmap verso una nuova sinistra dovrebbe stimolare a conoscersi, incontrarsi, partecipare.

Allora, forse, anche il liberalismo potrà scoprire che le attenzioni verso le necessità dell’individuo sono il primo passo verso quelle della collettività.

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