Spesso ci si affanna a cercare d’interpretare lo Spirito del Tempo; pure se non si capisce neanche poi tanto bene che cosa sia, in effetti. Leggendo Tasmania (Einaudi 2022), ho avuto la sensazione che Paolo Giordano l’abbia catturato.

La crisi climatica, il terrorismo, il divario generazionale tra chi sul mondo si sta affacciando adesso e chi ci vive già da tempo. I più grandi sconvolgimenti del contemporaneo sono il terreno di questo romanzo, il cui autore concentra lo sguardo - lucido, attento, estremamente disincantato - sulla crisi del nostro tempo. Giordano, però, non si limita solo a vivisezionare questa epoca, con i suoi dubbi e le sue paure: ampliando e riducendo il campo narrativo, e usando una struttura a cerchi concentrici, torna ai disastri del passato alla ricerca delle radici del presente ponendosi una domanda: cosa sarà di noi? Saremo in grado di trovare la nostra Tasmania, la nostra salvezza?

La crisi globale diventa così la crisi dell’individuo, dell’uomo contemporaneo incapace di tradurre, pure a sé stesso, i propri desideri e le proprie paure. Paolo Giordano si è guardato attorno e, con grande onestà, è riuscito a raccontare il presente in modo eccezionale.

Paolo, l’apocalisse è già cominciata?

Scrivendo Tasmania mi sono reso conto che parlare di fine del mondo, ma in generale di senso di minaccia incombente, ormai è una costante, una sorta di nota di fondo, e penso che questo invocare incessantemente la fine cominci a essere un po’ ridicolo. Sulla parola apocalisse, poi, un amico biblista mi fatto notare che l’uso comune ne ha smarrito un altro: “apocalisse” in origine significava “rivelazione”.

Questo perenne senso di minaccia incombente è comune a tutti?

A tanti, ma non credo a tutti. Io l’ho sviluppato negli ultimi anni occupandomi in particolare del cambiamento climatico, ma quando ho iniziato a scrivere Tasmania l’avevo già un po’ digerito.

Al di là dei fatti oggettivi, quale credi sia il motivo per cui abbiamo questa sensazione?

Siamo estremamente consapevoli di una quantità incredibile di cose, abbiamo sempre le finestre spalancate sul mondo intero e i media, i social ci alimentano tutti i giorni di ogni sorta d’informazione. Non importa quanto lontano sia un dato avvenimento: abbiamo tutto a portata di mano, tutto addosso. Convivere con dinamiche globali di qualsiasi tipo, per sia quanto importante, ci espone a questa sensazione di minaccia, e la esalta anche.

È per questo che hai deciso di parlare tanto, nel romanzo, dell’esplosione delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, eventi molto lontani sia temporalmente, sia spazialmente?

Sì, anche. Quei fatti però mi interessavano soprattutto perché quello è stato un frangente della Storia in cui è avvenuta una fine del mondo locale.

Andando indietro nel tempo, quindi, credi che questa sensazione si possa rintracciare in altre epoche?

Nei giorni scorsi ho letto L’inverno nucleare (Bompiani 2000), una raccolta di articoli e interviste di Alberto Moravia scritti tra il 1982 e il 1985. Parla della minaccia nucleare, naturalmente, argomento che in quegli anni era sulla bocca di tutti. Ecco, mi ha colpito il fatto che Moravia si sentisse molto vicino alla fine dell’umanità: per lui una catastrofe di proporzioni globali era possibile. Credo che in alcuni momenti degli anni in cui la tensione nucleare è stata alta il senso di fine fosse molto più forte di quello che viviamo oggi. E posso pure comprenderlo, in fondo.

Perché?

La minaccia del cambiamento climatico è dilazionata nel tempo, è più lenta. L’atomica all’epoca sembrava pronta a distruggere il mondo nel giro di ore. Con questo libro la mia intenzione era danzare tra gli accadimenti della nostra minaccia senza farmi schiacciare e, al tempo stesso, cercando tutte le piccole rivelazioni, tutte le piccole apocalissi, che fioriscono tra i suoi interstizi.

In effetti, è vero: la minaccia che sentiamo incombere sul nostro futuro è più lenta rispetto a quelle che hanno adombrato certi periodi del passato. Non credi, però, che il cambiamento climatico sia un disastro nettamente più probabile e concreto?

Per te è così?

Sì, per me sì.

Qual è la sorgente? Solo il cambiamento climatico o pure la guerra in Ucraina, il ritorno del nucleare, la situazione economica?

È un insieme di tutte queste cose, credo. Mi guardo attorno è ho come la sensazione che il puzzle del contemporaneo stia assumendo dei contorni preoccupanti. E mi mette addosso una certa ansia. A proposito, di recente si è parlato molto di ecoansia: ne soffri?

Credo di sì. E con Tasmania volevo andare in questa direzione, indagare le persone che si portano dentro preoccupazioni del genere. Ci sono tipi umani che riescono a valutare in modo preciso quel che li riguarda, che li coinvolge personalmente, e quel che invece può essere messo su un fondale più lontano. Io tendo a sentirmi investito da ciò che è apparentemente ampio, distante. Tanto oggi quanto in giovinezza, le macro-preoccupazioni, che poi i media magnificano e spesso distorcono un po’, per me sono terribilmente incombenti. Tornando all’ecoansia: credo che la nostra minaccia, quella che noi sentiamo incombere sul futuro, non generi ansia quanto più una sorta di depressione latente. Questo tempo è meno ansiogeno e più depressivo: ci stiamo degradando lentamente, ma nessuno di noi sembra capace di intuire una possibilità di svolta.

Hai detto di sentirti investito pure da ciò che, in qualche modo, è distante da te. Qual è, quindi, il ruolo che senti di avere?

Credo che uno dei problemi della crisi climatica sia che darne un immaginario vivido e concreto è molto difficile. Una parte dei miei sforzi con questo libro, ma pure con Divorare il cielo (Einaudi 2018), risiede proprio in questo: dare un immaginario che riesca a penetrare il tessuto collettivo. La crisi climatica è lenta, inafferrabile, per certi versi astratta e persino noiosa, e io, da scrittore, vorrei darle delle forme più solide.

Tornando di nuovo al senso di catastrofe percepito da Moravia. Pensi che ogni generazione, per ragioni diverse, avverta una minaccia incombente sul proprio futuro? In altre parole: credi che ogni generazione, abitando il proprio tempo da protagonista, sia incline ad avere questa percezione?

È chiaro che ci sia una tendenza, innata nell’uomo, a sentirsi sempre sul bordo di un abisso. Riconoscere questo, però, non significa ammettere che tutte le epoche siano uguali. Ogni generazione ha le sue sfide e i suoi dubbi, ma non sono equivalenti. La crisi climatica ha in sé elementi che la differenziano da quelle del passato.

Sarebbero?

Innanzitutto, è diversa per la sua globalità: incide e inciderà sulla vita di ogni individuo sulla terra. Poi, come dicevo prima, infligge un senso d’impotenza molto specifico. Se ci si concentra sul periodo di cui parla Moravia è chiaro che ci fosse una fantasia di distruzione diversa. Era più specifica, e imminente: uno dei paesi in conflitto avrebbe sganciato la prima bomba atomica e a quel punto la guerra sarebbe stata totale.

Parlando di generazioni a confronto. È in atto uno scontro generazionale sul clima?

Non lo definirei uno scontro, ma qualcosa sta capitando. La salsa di pomodoro lanciata contro i dipinti e i blocchi sul raccordo anulare non sono parte di una lotta tra generazioni ma le manifestazioni della maggior presa di coscienza di una generazione, la più giovane, che riconosce nel cambiamento climatico la sua minaccia alla continuità.

Però, da rappresentante di queste generazioni (millennial e generazione Z), l’impressione che chi è più grande di noi non ci voglia ascoltare e non voglia vedere è netta.

Da un punto di vista antropologico, a mio avviso è normale. Chi ha la mia età o è appena più anziano ha già provveduto alla propria continuità, alla propria procreazione, e ha un immaginario più astratto rispetto a questa situazione. Inoltre se vogliamo mitigare il cambiamento climatico e adattarci a ciò che ci attende dobbiamo fare delle rinunce, abbandonare certi aspetti di godimento finora dati per scontato. L’idea di illimitatezza, che abbiamo conosciuto dal dopoguerra, deve necessariamente subire dei cambiamenti, ma si tratta di un’operazione controintuitiva, difficile.

Mettiamo da parte il clima, ora entriamo nel libro. In Tasmania partendo dalla crisi globale, pian piano, ti concentri sull’individuo e sulla sua crisi personale. Uno dei punti di contatto tra questi aspetti, tra la crisi globale e quella del Paolo protagonista, è la difficoltà di comunicazione.

La comunicazione è una tessitura importante in Tasmania. D’altra parte, il libro comincia con il narratore che si trova alla conferenza sul clima di Parigi del 2015 per scrivere un articolo per un quotidiano, ma non sa cosa raccontare. Come dire che non sa come comunicare ciò che sta succedendo in quei giorni a Parigi.

Da cosa dipende?

Dal fatto che come lettori ci appassioniamo più facilmente alle storie intime, che hanno a che vedere con l’individuo, alla vita nelle sue manifestazioni più quotidiane, che con la collettività in senso astratto. Eppure, ci troviamo ad abitare un tempo che ha in sé delle complessità che hanno un bisogno urgente di essere raccontate. In Tasmania ho provato a mettermi in ascolto e tradurne alcune. Mi sono lasciato invadere completamente, abbandonandomi a degli eventi le cui eco sentivo riverberare dappertutto.

Qual è il ponte di comunicazione tra i grandi eventi del romanzo e i lettori a cui cerchi di comunicarli, questi eventi?

La crisi personale e coniugale del protagonista, l’uomo che vaga nel suo, nel nostro, tempo. Mi sono chiesto se dai grandi accadimenti del contemporaneo si potesse arrivare a un percolato d’intimità e sono giunto alla sua vita.

Mi hai detto che scrittori e scrittrici sono chiamati a farsi traduttori delle complessità del nostro tempo. Credi che succeda, in effetti?

Secondo me succede, ma più nel dibattito, nel lavoro intellettuale, e meno nei libri. Su social, quotidiani e tv accade, e siamo pieni di esempi in tal senso, ma credo che in letteratura succeda più di rado. C’è una sorta di disgiunzione, faccio più fatica a rintracciarlo nei libri, il contemporaneo.

A proposito della parte più intima del libro, quella che ha a che fare con la vita del protagonista. Paolo collabora con un quotidiano, fa lo scrittore, sua moglie è più grande di lui, ha un figliastro e vive a Roma. Gli elementi di contatto con la tua biografia sono tanti.

È vero, ma gli accadimenti raccontati nel romanzo sono quasi tutti inventati. Di rado le scene narrate sono tratte dalla mia memoria.

Perché?
Perché non è un memoir. Gli agganci alla realtà mi servivano per raccontare il personaggio, ma la storia del racconto è di fantasia. Mi interessava lavorare sull’indistinguibilità.

Un esempio pratico?

Curzia, una giornalista del romanzo, è a Manchester per raccontare l’attentato del 2017. Dovrebbe mandare un articolo alla redazione, ma non riesce proprio a scrivere niente ed è colta da un attacco di panico, così chiama Paolo, in cerca di aiuto, e lui la rassicura. Qualcosa del genere è capitata nella realtà, ma con modalità diverse. Era il 2016 e mi trovavo a Bruxelles per scrivere un pezzo sugli attentati di quel giorno, del 22 marzo. Dopo una giornata in giro per la città, sono tornato in hotel per mettere su l’articolo, ma dopo ore al computer non sono riuscito a fare niente. Ho avuto una crisi di panico, così ho chiamato il vicedirettore, chiedendogli scusa e dicendogli che non riuscivo a scriverlo, il pezzo; il giornale aveva riservato uno spazio per me e alla chiusura mancava poco, ero molto in imbarazzo. E lui, il vicedirettore, mi ha detto bene o male ciò che nel libro Paolo dice a Curzia, tranquillizzandomi. Come definirla, una trasposizione del genere? C’è un elemento di realtà, ma cambiano le persone-personaggi, il tempo e il luogo, e io divento l’altro.

Di Lorenza, la moglie di Paolo, che mi dici?

Ne ho sentito la voce, chiarissima e fin da subito. Un suono autentico.

Ho avuto la sensazione che il protagonista provasse imbarazzo nel sesso.

Il sesso è complicato, per me non è mai stato facile. Anche questa è una di quelle questioni che forse dividono il genere umano: chi si preoccupa molto, e vive l’atto sessuale con ansia, e chi si lascia andare, e lo vive con tranquillità.

Perché rientri nel primo gruppo, tu?

Forse perché il sesso ha a che fare in parte con l’abbandono e in parte con l’affermazione di sé nel mondo, e io ho sempre avuto dei grossi problemi con entrambi. Non li so gestire, avverto spinte controverse.

In effetti, trovo anch’io che il sesso sia, per certi versi, ansiogeno, ma più per la sovresposizione, sia fisica sia anche psicologica ed emotiva, a cui ti devi lasciar andare.

In questo romanzo parlo di sesso in modo anche un po’ spudorato, era nelle mie intenzioni.

A quale scopo?

Il desiderio maschile è spesso narrato in maniera univoca, un po’ semplicistica. Io lo conosco come più tortuoso e sfaccettato.

Che cosa ti ha dato la libertà di scriverne così? 

Anche se può sembrare bizzarro, è una libertà legata al racconto delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, e al periodo della pandemia in cui il libro è stato concepito. Tasmania parla di sopravvivenza, e di cosa succede quando ci sentiamo dei sopravvissuti. Ecco, credo che questa condizione – quella di sopravvissuti, appunto – ci dia la possibilità di una liberazione da un certo impianto moraleggiante, e forse borghese. Una liberazione da molte schermaglie.

Non avevi paura delle associazioni dirette tra te e il personaggio?

Paura no, ma ero cosciente della possibilità.

E?

E non me ne frega niente.

Rimaniamo sul desiderio. Qualche giorno fa, in un’intervista a Veronica Raimo hai detto che tra i tuoi scopi principali con Tasmania c’era anche la “decostruzione del maschile”.

Oggi ne parlo come se scrivendo avessi questa intenzione deliberata, ma non è andata così. Solo dopo, in fase di stesura avanzata, l’ho riconosciuta, questa operazione. In effetti, il romanzo raccoglie esperienze perlopiù maschili. Con alcuni dei miei libri precedenti ho indagato cosa significhi essere veri uomini; soprattutto con Il corpo umano (Mondadori 2012). Ma oggi non mi interessa: il maschile non è un monolite, è un caleidoscopio.

In Divorare il cielo, tuo romanzo precedente, c’era un sogno utopico, una forte voglia di combattere, un grande desiderio di ribellione. In Tasmania ho l’impressione che il tuo protagonista sia arreso. Ti chiedo, quindi: di speranza ne hai ancora?

Penso che la speranza sia un progetto, un’idea di costruzione che si manifesta poche volte nell’arco degli anni - non è un dono che ci viene elargito alla leggera. Quindi sì, ne ho ancora, ma ogni tanto fatico a trovarla.

Allora cos’è la speranza, per te?

È speranza tutto ciò richiama energia nella mia vita.

Paolo, ultima domanda, la faccio sempre. Hai settant’anni: dove sei, con chi, sei che fai?

In poltrona a leggere, dove non lo so ma con chi sì. Non vivo più in città. E mi vedo sereno.


Tasmania (Einaudi 2022, pp. 272, euro 19,50) è l’ultimo romanzo di Paolo Giordano

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