Tra i tanti modi che esistono per definire i cambiamenti globali c’è la visione “estetica” del filosofo coreano Byung-Chul Han che rivela come la società contemporanea sia attratta dalle forme lisce e continue. Viviamo in una spasmodica ricerca dell’armonia a tutti i costi che non ammette rotture, graffi o ruvidità sulla cover del nostro cellulare quanto nella nostra esistenza.

Il design, la moda e l’arte degli ultimi 20 anni hanno abolito gli spigoli, messo nell’armadio borchie e spalline e valutato 58 milioni di dollari i rassicuranti palloncini di Jeff Koons.

Evitare ogni soluzione di continuità ricade in quella cultura dell’individualismo che ha pervaso sempre più la nostra società. Le superfici lisce denotano la nostra volontà di evitare conflitti, e lo stare da soli, magari come un “digital nomad”, è il modo migliore perché ciò si realizzi.

Ma ci sono contesti in cui i conflitti non solo sono inevitabili, ma persino necessari. Nella politica, ad esempio, costruire un progetto di una società migliore significa entrare in contatto con chi vorrebbe un cambiamento diverso o non lo vorrebbe affatto. Una tensione creativa, oppositiva, progressiva, evolutiva e ovviamente non violenta, ma pur sempre un conflitto.

Da Hegel a Dahrendorf non manca chi ha indicato il progresso nello scontro tra tesi e antitesi. Ma le democrazie occidentali hanno gradualmente perso la capacità di sviluppare culture politiche di riferimento: quelle stesse così necessarie al fine di attivare un confronto e una dialettica che permettano di immaginare il futuro di una Nazione, preservando allo stesso tempo tutte le sue identità.

due opzioni

Senza questo radicamento, alle forze politiche restano solo due opzioni di fronte al conflitto: o spianano ad ogni costo ogni “spigolo”, perché non sanno come connotarsi di fronte a idee diverse, o utilizzano la rottura totale per darsi un’identità.

La vera innovazione sarebbe invece riconoscere la necessità di una “abrasività”, anche prolungata, e tutti i graffi che ne conseguono.

La crisi della cultura politica italiana dell’ultimo decennio si può leggere anche in questa chiave: nei partiti più giovani l’idea del ruolo di una conflittualità creativa non è presente e questo porta proprio a puntare sulla rottura totale.2

Nelle formazioni storiche, che hanno vissuto anni in cui il contrasto ideologico andava di moda quanto la Fiat 127, è prevalsa, invece, proprio l’idea che ogni attrito avrebbe rallentato quella prosperità economica a cui anelano gli elettori di oggi.

Conflitti ci sono stati, in effetti, più nel merito delle persone che delle idee, ma questi non sono tra quelli che possono creare un dibattito costruttivo.

Qualcosa però sta cambiando e la politica di questo fine 2022 sembra non aver paura di creare asperità. Al di là dei giudizi di merito, bisogna riconoscere come le parole e i primi atti del nuovo governo italiano dimostrino la volontà di rifarsi direttamente alla cultura politica che contraddistingue storicamente lo schieramento da cui è nato.

Una superficie abrasiva che può non piacere (e di certo non è fatta per piacere a tutti), ma va nella direzione di restituire al “conflitto” la sua forza costruttiva.

La sfida sarà quella di utilizzare questa “ruvidità” per cercare un reale cambiamento, evitando di far prevalere, ancora una volta, la tentazione di superare ogni contrasto, appiattendo le asperità o arrivando a una rottura distruttiva.

Ma la scelta sarà soprattutto degli avversari oggi all’opposizione perché accettare lo scontro è l’unica strada per rianimare la propria cultura politica di riferimento.

Se ciò avverrà, nella prossima tornata elettorale i partiti potranno opporre, invece dei giudizi sull’altro, le loro idee e le loro visioni del futuro, senza paura di qualche graffio nei consensi.

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