Il grande massacro dei bambini è una macchia che graverà a lungo su Israele. L’ira funesta per gli orrori compiuti da Hamas – e ci vuole stomaco per reggere ai racconti delle raccapriccianti violenze sessuali compiute da quella orda di sessuofobi repressi – travolge gli israeliani e li perde nella sete di vendetta.

Non c’entra nulla il diritto all’autodifesa di Israele. È privo di senso confrontare delle milizie di fanatici con un esercito dotato degli armamenti tecnologicamente più avanzati. Ovviamente, come in tutte le guerre asimmetriche anche i guerriglieri possono infliggere danni, e lo si è visto il 7 ottobre; ma possono vincere solo se il regime contro il quale combattono è minato dall’interno.

Israele, invece, benché percorso da mille linee di frattura, è unito come pochi al mondo, cementato da una tragica storia che alla fine supera ogni divisione. Quindi è fuori luogo sostenere che rischia di «essere spazzato via», anche perché, se si trovasse in una situazione di vero pericolo esistenziale, l’occidente correrebbe in suo soccorso armi in pugno.

La distruzione sistematica di Gaza, ridotta a un cumulo di macerie tanto da ricordare la Varsavia del 1944, quella città nella quale vagava il Pianista di Roman Polanski, uno dei migliori film mai realizzati su guerra e sterminio, non può lasciare indifferenti.

Le migliaia di morti e le centinaia di migliaia di persone senza più casa e costrette a vagare da una parte all’altra di quel fazzoletto di terra per l’incalzare dei combattimenti, ci ricordano che la guerra non risparmia i civili. Anzi, il celebrato biopic sull’artefice della bomba atomica, Felix Oppenheimer, ha riportato d’attualità che proprio – e solo – infierendo contro i civili si piega l’avversario più irriducibile.

Con la prosecuzione del conflitto si sta facendo strada la banalizzazione del male. Tanto che, a leggere alcuni recenti interventi, sembra che il silenzio delle armi sia un depassé rispetto all’eccitante crepitare della mitraglia e al mussoliniano sentore di trincea. Persino l’uccisione, quasi un’esecuzione, di due bambini di 8 e 15 anni a Jenin ha avuto pochissimo risalto. Nei nostri media è passato velocemente, giusto qualche fotogramma, subito archiviato.

Probabilmente non per faziosità o “negazionismo”, ma per assuefazione all’orrore. È a questo che bisogna reagire. Dall’interno di Israele, dal mondo pacifista e liberal si levano voci per porre fine alla mattanza indiscriminata degli abitanti di Gaza e alle violenze altrettanto indiscriminate in Cisgiordania. E in Italia alcuni membri della comunità ebraica, da Carlo Ginzburg a Gad Lerner, da Anna Foa a Simon Levis, hanno rivolto un appello per la fine delle ostilità e il riconoscimento dei due stati.

Sulla stessa lunghezza d’onda si sono mosse le veglie interreligiose, le marce della pace con e senza bandiere politiche, e le riflessioni del convegno milanese del Pd promosso da Gianni Cuperlo. Tutto ciò mostra che c’è ancora un’opinione pubblica sensibile che non si arrende alla mostruosità della guerra e alla disumanizzazione che essa comporta.

I conflitti nel mondo sono infiniti, e tutti sanguinosi. Quello in corso a Gaza è l’unico che coinvolge una democrazia compiuta e matura. È per questo che si può e si deve richiamare quella classe dirigente al rispetto dei suoi valori. Che, purtroppo, sta calpestando, trasformando quel territorio, come aveva detto il segretario dell’Onu António Guterres, nel più grande cimitero di bambini della storia recente.

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