Marco Almagisti ha appena pubblicato per Carrocci Una democrazia possibile – Politica e territorio nell’Italia contemporanea. Questo articolo ne condensa l’analisi. 


Pandemia e guerra, dopo la crisi economica del 2008 e gli attacchi terroristici con i quali si è inaugurato il nuovo millennio.

Sono tutti accadimenti che mettono in discussione i nostri fondamenti sociali, le ragioni e il senso della convivenza. Il nostro paese, «dalle strutture fragili e dalle passionalità intense», nelle parole di Aldo Moro, ha imparato, nel secondo Novecento, a trovare una possibile via di crescita democratica tenendo assieme le sue molteplici differenze.

Ma oggi queste sfide trovano un paese sfiancato da una lunga transizione politica che non è pervenuta ad un approdo stabile.

Le identità di alcuni dei principali partiti sono incerte e non rappresentano riferimenti chiari per i cittadini, non aiutano a integrare le differenze di cui il paese è ricco.

Un paese ricco di differenze

Niccolò Machiavelli rifletteva in merito ai destini dell’Italia con uno sguardo pessimista. Erano immaginabili per il segretario fiorentino le conseguenze delle fratture che, già ai suoi tempi, caratterizzavano il territorio della nostra Penisola.

Secondo Machiavelli (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio) la presenza della Chiesa è «cagione della rovina nostra […poiché] la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa».

A differenza di altri Stati quali la Spagna e la Francia, in Italia il processo di unificazione risulta più difficile per la presenza della sede di una grande religione universale.

In un volume del 1998, L’identità italiana (Mulino), Ernesto Galli della Loggia ha sottolineato come, da un lato, la Chiesa assunse su di sé l’eredità dell’impero romano e la sua ambizione di universalità, dall’altro, ha osteggiato a lungo la costruzione di un potere statuale che, in forma ridotta, potesse riprodurre l’antico corrispettivo imperiale.

Ne è conseguito un quadro composito, in cui si sono sedimentati patrimoni culturali differenti, spesso conflittuali.

Nel 1993 Robert Putnam ha pubblicato un libro dal titolo La tradizione civica nelle regioni italiane, che ha suscitato un ampio dibattito. La ricerca studiava il rendimento istituzionale delle regioni italiane e spiegava le differenze a favore delle regioni centro-settentrionali con la presenza in esse di una più forte tradizione di cultura civica e di capitale sociale (inteso come giacimento di fiducia interpersonale, come potenziale di mobilitazione collettiva).

Tali differenze a favore delle regioni del centro-nord sarebbero dipese, secondo Putnam, da differenti dotazioni di capitale sociale e l’origine di tale discrepanza andrebbe ricercata nelle vicende che hanno caratterizzato la nostra penisola quasi un millennio fa, quando nell’Italia centrosettentrionale riuscirono a prosperare i liberi comuni, mentre nel meridione il regno dei Normanni portò a compimento una centralizzazione gerarchica costruita sull’eredità istituzionale bizantina e musulmana.

Il potenziale integrativo

Un grande studioso norvegese, Stein Rokkan, negli anni Sessanta del Novecento collegò la peculiare fisionomia politica dei diversi paesi dell’Europa occidentale ai differenti modi in cui essi avevano saputo ricomporre le fratture che attraversavano la società.

Tali linee di frattura contrapponevano parti diverse della società, ma al contempo le conferivano ordine e direzione, orientando le sue culture politiche.

A conferma delle preoccupazioni di Machiavelli, fra le linee di frattura delineate da Rokkan, in Italia hanno svolto un ruolo preponderante quelle generate dai processi di costruzione dello Stato e della nazione, di origine politico-culturale: fra Stato e Chiesa e fra Centro e Periferia.

Queste contrapposizioni avevano una forza simbolica e aggregatrice tale da riassorbire almeno in parte e ridefinire la frattura provocata dalla rivoluzione industriale, quella fra Capitale e Lavoro.

Le ricerche condotte negli anni Settanta da Ilvo Diamanti e Percy Allum, mostrano come la lealtà di gran parte dei lavoratori veneti verso la Chiesa si traducesse in consenso nei confronti del partito cattolico, nonostante emergessero elementi di insoddisfazione riguardo al suo operato concreto, considerato non troppo ricettivo delle richieste provenienti dal mondo del lavoro.

Ma la Chiesa era l’autentica custode delle risorse di identità, inclusione e di protezione materiale che scaturivano dall’appartenenza alla società locale e alla sua cultura (politica) di riferimento e questo faceva la differenza, anche nel segreto dell’urna.

Collegate a tali linee di frattura troviamo le identità politico-territoriali più significative della storia politica italiana: le due principali “subculture politiche territoriali”, dell’Italia nordorientale (zona “bianca”) e dell’Italia di mezzo (zona “rossa”).

Nelle culture politiche ricche di civismo che, secondo l’analisi di Putnam, caratterizzano le regioni centro-settentrionali, in virtù dell’eredità della civiltà comunale dell’alto Medio evo, si sono sedimentati gli effetti di vicende politiche caratteristiche di periodi storici successivi.

Da queste basi sociali i partiti di massa italiani hanno tratto senso e identità. Al contempo, impedendo a quelle fratture di deflagrare, garantendo ai conflitti uno sbocco istituzionale e simbolico.

Le differenze ideologiche fra i “bianchi” e i “rossi” grondavano dai cartelloni elettorali sui muri delle città italiane già dagli anni Quaranta, ma poi si intrecciavano con le diverse eredità che i partiti incontravano nei contesti territoriali e le cui radici affondavano in periodi antecedenti l’unificazione nazionale dando origine a società locali differenziate ma integrate nel più ampio contesto nazionale.

Tale ancoraggio territoriale dei partiti di massa è risultato determinante per il consolidamento della democrazia repubblicana. 

Negli anni Novanta, il collasso del sistema dei partiti ha un epicentro preciso: l’Italia nordorientale, l’ex cassaforte di consenso “bianco”, dove la Dc non riesce più a rappresentare i ceti emergenti di piccola e media impresa che si orientano verso la Liga Veneta prima e la Lega Nord poi, ossia verso neo-formazioni partitiche aventi nel territorio e nel localismo il loro tratto identificativo.

Proprio in quegli anni una nuova linea di frattura stava affermandosi in molte democrazie consolidate: quella fra partiti “anti-establishment” e partiti dell’“establishment”, avente per oggetto la critica della politica tradizionale, delle sue forme di rappresentanza e mediazione.

Vecchie e nuove linee di frattura

Svariati analisti hanno correlato fenomeni quali la Brexit, l’elezione di Donald Trump ed anche la crescita dell’estrema destra in Europa con molte cause locali, ma, al contempo, mostrando quale tratto accomunante una forte componente anti-establishment, basata sul risentimento che scaturisce dalle promesse non mantenute della globalizzazione e si incanala verso quelle classi dirigenti che l’hanno promossa, (mal) governata e che sembrano non comprendere l’entità delle conseguenze per quanti restano penalizzati.

Negli ultimi tre decenni, le posizioni anti-establishment hanno contraddistinto l’affermazione di tutti i nuovi protagonisti della politica italiana.

La Lega di Bossi e il partito di Berlusconi, Renzi e il Movimento Cinque Stelle. Anche Salvini, sotto la cui guida la Lega ha cercato di trasformarsi in partito nazionale e nazionalista, lasciando soprattutto a Luca Zaia la rappresentanza territoriale.

Proprio la parabola di queste leadership, esposte alla rapida obsolescenza indotta dal sistema dei media e dell’ambiente social, mostra come ogni appuntamento elettorale possa costituire un “salto nel voto” (Diamanti), un appuntamento pieno di insidie.

Così, una Lega nazionalista rischia di perdere ogni specificità e di offrirsi disarmata anche in zone come il Nordest alla concorrenza di un partito (Fratelli d’Italia) e di una leader (Giorgia Meloni) che sui richiami nazionalisti può vantare una coerenza di lungo periodo.

La stessa conquista di una zona “rossa” dell’Italia centrale, ormai esangue, si è infranta per la sconfitta di Salvini di fronte a candidati (Bonaccini, Giani) che non hanno esitato a fare riferimento a richiami “localisti” contro lo sfidante “nazionale”.

Rimosso dalle logiche della politica nazionale, il territorio si ripropone quale pietra d’inciampo. Evocazione di alternative, reali o immaginarie che è sempre saggio non trascurare.

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