Non ricordo quando è cominciata l’abitudine di proporre i monologhi a Sanremo. Che poi monologhi non sono: chi li “recita” non è un attore, e il testo non ha nessuna pretesa artistica.

Il contenuto di questi momenti è unicamente morale, pedagogico, e dovrebbero quindi essere chiamati per quello che sono: prediche.

Omelie (più o meno) laiche, che conservano però tutto della loro origine pretesca: atteggiamento ex cathedra, costume dell’officiante, mozione degli affetti, assenza di contraddittorio, linguaggio ultrasemplice e accessibile a tutti.

Ogni criticità, ogni complessità è bandita. Sanremo è in fondo l’ennesima riproposizione del monito berlusconiano: parla al consumatore come fosse un bambino di undici anni non troppo intelligente.

Sanremo è del resto una grande liturgia nazionale, e le omelie ne rappresentano il momento più istruttivo ed esemplare.

Ma se di prediche si tratta, qual è il vangelo predicato? Naturalmente quello del mercato. In questo, Sanremo non ha niente di regressivo: è anzi in piena sintonia coi tempi.

Il festival è un rito collettivo che non ripudia ma anzi celebra felicemente la religione dell’impero. Questo vangelo non è, ovviamente, nei contenuti letterali di ciò che viene detto: gli enunciati sono così ovvi, così facilmente condivisibili da trovarsi automaticamente al di qua di ogni discussione. Il vero messaggio è altrove.

Se, come dice Jonathan Bazzi (e io sono d’accordo con lui), Chiara Ferragni è un eccezionale «dispositivo per leggere il tempo che attraversiamo e che ci attraversa», non lo è certo per quel temino recitato al microfono.

Il messaggio di quel momento non è nel testo: è nel suo corpo, nella sua vita, nella sua carriera elevata a parabola. Il messaggio è lì: non nelle parole, ma nella proposizione di un modello.

Chiunque sia stato chiamato a Sanremo non per cantare ma per parlare (predicare), lo è stato in quanto appartenente alla categoria dei vincenti. Un certo tipo di vincenti.

Se prendiamo le protagoniste femminili del festival - Chiara Ferragni, Francesca Fagnani, Paola Egonu, Chiara Francini, si tratta di donne che hanno una sola cosa in comune: sono donne “arrivate”, ricche, straordinarie imprenditrici di se stesse.

Si ha un bel dire, sul palco, che bisogna accettare fragilità e fallimenti, se la ragione per cui si è lì a dirlo è una parabola sul potere salvifico e legittimante del successo.

È questo a renderle i modelli della pedagogia civile sanremese: esempi virtuosi per la nazione. Come scriveva Pasolini: «La televisione compie la discriminazione neocapitalistica tra buoni e cattivi. Qui è la vergogna che essa deve coprire, creando una cortina di falsi realismi: una intollerabile ufficialità».

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