L’inchiesta e il processo che hanno portato alla condanna dei commercialisti della Lega di Matteo Salvini nascono da un lavoro di indagine giornalistica. Era il 26 aprile 2019 e sul settimanale L’Espresso, assieme al collega Stefano Vergine, avevamo svelato per la prima volta i documenti sull’operazione immobiliare conclusa dalla fondazione Lombardia Film Commission: l’acquisto di un capannone in provincia di Milano, a Cormano, al prezzo di 800 mila euro pagati a una società immobiliare, Andromeda, che aveva così incassato il doppio di quanto ne aveva sborsato pochi mesi prima per acquisire lo stesso fabbricato. Le stranezze in questa vicenda apparivano fin dall’inizio numerose.

A partire dal fatto che presidente della fondazione, controllata e finanziata dalla regione, era Alberto Di Rubba, il commercialista della Lega chiamato dal tesoriere Giulio Centemero con l’avallo di Matteo Salvini a gestire le finanze leghiste e allo stesso tempo piazzato in alcuni consigli di amministrazione di società del partito e anche pubbliche, come Lombardia film commission. È Di Rubba infatti che decide l’operazione immobiliare e sceglie di farla con le società che poi finiranno nell’inchiesta. 

Le sigle societarie, altra anomalia, erano riconducibili a personaggi legati a Di Rubba e alla Lega: tra tutti altri due commercialisti, Andrea Manzoni, il secondo contabile del partito, e Michele Scillieri (nel suo studio era stata domiciliata la nuova Lega Salvini premier). 

Tutti elementi che conducevano verso un ruolo di uomini del partito di Salvini nell’operazione immobiliare fatta con soldi pubblici, e che poteva prefigurare una distrazione di fondi regionali distratti verso aziende legate agli stessi professionisti della Lega. 

Attraverso documenti catastali e relazioni dell’antiriciclaggio avevamo, dunque, messo in fila i fatti e seguito il denaro pubblico della regione, versato tramite la fondazione Film commission, a piccole Srl connesse ai leghisti.

All’articolo seguì un silenzio imbarazzato di Matteo Salvini, in Lombardia si giocava molto del suo futuro politico, che però rischiava di traballare di fronte a un’ipotesi di distrazione di denaro pubblico dei lombardi da parte di uomini voluti da lui nel partito. 

Nei giorni successivi le opposizioni, almeno in consiglio regionale, sollevarono il caso chiedendo spiegazioni al presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana. Senza, tuttavia, ottenere grandi risultati. A Roma il silenzio, anche da parte del partito democratico nazionale, a differenza del Pd lombardo che è stato tra i primi insieme ai 5 Stelle a capire la portata dell’affare Film Commission. 

L’inchiesta giornalistica ha dunque contribuito ad aprire un filone parallelo di indagine da parte della procura di Milano, che stava già lavorando segretamente a un’indagine di ampio respiro su alcune anomalie legate alla costituzione della nuova Lega e ai protagonisti che ruotavano attorno ai commercialisti del partito. 

Come spesso accade in questo paese però si è attesa la magistratura per chiedere conto al leader Salvini dell’operato dei professionisti. Fino all’arresto di Di Rubba e Manzoni, infatti, che hanno confermato le notizie svelata un anno e mezzo prima dall’inchiesta giornalistica pochi, tra media e politici, avevano sollevato la questione etica che stava scuotendo alla radice la Lega di Salvini. Solo dopo l’operazione della finanza, che ha portato i commercialisti ai domiciliari, la vicenda da locale è diventata nazionale. Ma soprattutto l’obiettivo del nostro lavoro giornalistico non era dimostrare l’esistenza di reati, non è certo affare dei cronisti, che non sono giudici né pm. L’intenzione era rivelare un sicuro conflitto di interessi dei commercialisti che amministravano i conti correnti del partito. Una questione di responsabilità politica prima che di eventuale responsabilità penale. 

I magistrati e i giudici hanno ritenuto che le notizie rivelate violavano il codice penale, tanto che sono arrivate le condanne dei guardiani delle casse leghiste potrebbero rappresentare un problema serio per Salvini. Per un motivo: Di Rubba e Manzoni dovevano rappresentare la rottura con il passato degli scandali, il più noto quello sulla truffa dei rimborsi elettorali da 49 milioni di euro. Così non è stato, anzi. Altre operazioni opache hanno segnato il nuovo corso di Salvini. Chi si aspettava una presa di posizione dei leader leghisti è rimasto deluso: al processo contro Di Rubba e Manzoni la regione guidata dalla Lega con Fontana nonostante sia parte lesa non si è costituita parte civile. E Salvini? Fino a qualche settimana fa continuava a ripetere che dei due commercialisti lui si fida. 

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