Avevano detto di essere “pronti”: non lo sono. Non a governare il paese, visto che continuano a litigare sulla lista dei ministri (sul posto per l’organizzatrice delle feste di Arcore Licia Ronzulli, sul numero dei tecnici, su dove mettere Matteo Salvini…).

E non sono pronti neppure a gestire il parlamento: la coalizione del centrodestra che ha stravinto le elezioni si spacca al primo voto, quello per eleggere il presidente del Senato.

Forza Italia vota scheda bianca perché aspetta risposte su Ronzulli, un pezzo di opposizione vota con Fratelli d’Italia e Ignazio La Russia viene eletto.

Avevano detto di essere moderati, magari conservatori, solo un pochino di destra, ma certamente non fascisti e neppure post-fascisti.

Ma il primo a ottenere un incarico formale nell’Italia di Giorgia Meloni è uno che ha in casa i cimeli di Benito Mussolini e si vanta di non festeggiare il 25 aprile.

Certo, nessuno può essere fascista nel senso di aver vissuto il Ventennio, ma chi ci guarda dall’estero e non conosce tutte le sfumature e le ipocrisie della destra italiana arriverà presto alle sue conclusioni: fascista è chi si richiama al fascismo, ai suoi riti, ai suoi ideali.

Avevano detto di rappresentare tutta l’Italia, di essere nuovi, di una rottura con i dieci anni di grandi coalizioni nate in parlamento.

E invece sono sempre loro, a cominciare dal pregiudicato Silvio Berlusconi che torna in Senato dopo una condanna definitiva e come primo atto viola subito l’unica regola disponibile da violare, l’obbligo di cravatta. E’ lo sfregio del condannato espulso dalle istituzioni che reclama la sua rivincita.

Avevano detto che non c’era da preoccuparsi, che la svolta moderata di Meloni è da incoraggiare, non da guardare con diffidenza.

Giornali, imprenditori, perfino molti oppositori, hanno invitato a lasciare che “Giorgia” governi, perché è tanto brava e verace.

Una che non ha mai amministrato nulla, che non ha mai veramente lavorato e che sarà pure il primo premier donna ma anche il soltanto il terzo senza una laurea.

E ci voleva Liliana Segre, memoria storica del paese indifferente all’ipocrisia di certi appalusi, a ricordare che già una volta il paese ha perso le sue coordinate valoriali e morali e si è consegnato al fascismo. E ci voleva Liliana Segre a ricordare che i parlamentari, tutti, devono impegnarsi per attuare la Costituzione, invece di promettere di stravolgerla.

E che il 25 aprile non può essere divisivo, perché nella celebrazione condivisa di certe ricorrenze si consolida la trasmissione dello “spirito repubblicano” da una generazione all’altra.

Ci volevano Segre e La Russa contrapposti, nella stessa aula, per ricordarci il meglio e il peggio della politica italiana. E a quale delle due categorie appartiene la compagine che ha vinto le elezioni.  

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